Due anni fa tornavo da Parma con un'amica. Mi aveva accompagnato a un festival letterario, secoli prima era stata mia allieva, ora aveva trentasette anni, una compagna fissa da parecchie stagioni e una venerazione decisamente esagerata per quello che scrivevo. Prima di Firenze cominciò a nevicare, era tutto bianco, il cielo e la strada, ci fermammo a un autogrill ad aspettare che smettesse. Col cappuccio in testa andai a prendere due caffé e due brioches e ci chiudemmo in macchina col riscaldamento a palla. Altri viaggiatori fecero come noi e il piazzale del Pavesi si riempì di auto in sosta forzata, piene di rappresentanti imbufaliti, amanti che il ritardo avrebbe fatto sgamare e dentisti che tornavano dalla settimana bianca. Il bello è che non eravamo mai a corto di argomenti, e non c'erano cose di cui con lei non avrei potuto parlare, la totale assenza di sottintesi erotici ci rendeva liberi e leggeri. Così, sfrontatamente, a un certo punto mi chiese se mi ero più innamorato dopo mia moglie. Nella stessa domanda infilava i concetti più difficili dell'universo, amore e morte, l'avevo tirata su proprio bene. Bevvi un sorso di caffè, addentai la brioche e risposi senza troppe filosofie: "Certo che sì, il problema è che quando stai con qualcuno, dopo un po' ti piace sempre qualcun altro. Che diavolo ne so, mi capita così, sarà una legge di natura. E questo è quel poco che so dell'amore". Disse che le sembrava una legge solo mia, più che di natura, e che lei stava benissimo da anni con sua moglie, e che era sicura che sua moglie la pensava allo stesso modo. "Puoi metterci la mano sul fuoco?" le domandai, e non mi ricordo cosa rispose, mi ricordo che rise, forse mi mandò a fare in culo ma sottovoce, ero pur sempre il suo ex professore. "Certo - aggiunse - tu sei letterario in ogni tuo gesto, ogni pensiero, se non romanzi una storia non sei contento". Ci aveva preso, mi conosceva bene. Forse per il tramite di quelle lezioni le avevo trasmesso la mia natura, l'indole, più che concetti da sussidiario. Dopo un po' smise di nevicare e con cautela ripartimmo, lei contenta di tornare dalla sua donna, io alla mia inquieta normalità.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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