Delle gole d'Appennino, dei ponti d'acciaio e cemento tirati da un baratro all'altro, vive il racconto del viaggio recente, settecento chilometri in un giorno, la paura di non farcela a restare svegli e il sospetto che qualche assassino si nasconda nei camion che ti sorpassano furibondi a venti centimetri dalla fiancata. Partiamo di giovedì, io e Susanna, un'altra mezz'ora e saremmo arrivati a Venezia ma il viaggio in fondo è una scusa per riepilogare quello che siamo: un padre e una figlia, e in mezzo una ferita così profonda che poteva dividerci e invece ci ha uniti. Prima di Firenze comincia il gioco delle canzoni, una a testa, una che piace a lei e una che piace a me, e ci parliamo attorno, è bello parlare attorno alle canzoni se hai una figlia che ci arriva, a certi significati nascosti, ben prima di quanto facevi tu alla sua età. Limitiamo al massimo le fermate, altrimenti tra una settimana siamo ancora in giro, però gli autogrill sono scrigni colmi di tentazioni a caro prezzo. E allora compriamo il Toblerone perché non se ne può fare a meno: è un rito quella stecca di cioccolata per chi viaggia lasciandosi alle spalle il consueto e va incontro all'avventura, addolcisce i tornanti e la claustrofobia dei tunnel. Che sono cento e cento ancora, e poi altri mille, e la notte sembra che cali a intermittenza e il cielo ora è blu e ora nero, chiazzato di luci elettriche che fanno pensare agli extraterrestri che sbarcano. Mettiamo il navigatore ma sbagliamo strada lo stesso, perché ci incaponiamo a fare di testa nostra e a tagliare per un viottolo che giuriamo ci porterà a destinazione in men che non si dica. Invece giriamo in tondo per un po', divaghiamo, che è a suo modo un'arte e ci ricorda come viaggiare e raccontare siano fratelli separati alla nascita. Lo consiglio a ogni padre, un viaggio ogni tanto con la propria figlia, anche senza un motivo: lo spazio stretto slega la confidenza, libera le parole altrove trattenute, e si torna più padri e più figlie di quando si è partiti, più innamorati, perfino. Altre risate, battute sofisticate che capiremo domani e per le quali rideremo a scoppio ritardato, e quando siamo alla sfinitezza ecco che appare il cartello stradale che segna la fine dell'impresa. Il tempo di una pisciatina, una sgranchita alle gambe, un piatto di cappellotti zucca e guanciale, due caffè robusti, e giriamo la macchina per il viaggio di ritorno.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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