Quando la sera esco per andare a teatro, o per scherzare con la mia ombra e i marciapiedi e le piazze galleggiano nella nebbia, e in giro non c'è nessuno, qualche volta ripenso al tempo in cui - ragazzino - credevo che il mondo smetteva di esistere appena non lo guardavo. Divenne una discreta ossessione, verso i nove o dieci anni. Mi convinsi che era tutto un inganno - casa mia, la città - e che mio padre, mia madre, la gente, gli amici, non fossero altro che attori scritturati per intrattenermi, ritenendo impossibile che altri potessero vivere, morire, giocare a pallone, andare di corpo, lontano dal mio sguardo. Non so se nella psicologia infantile c'è un termine per definire questa pazzia, so che faticavo a farmi capire dai miei, che minimizzavano, cambiavano discorso, e quando io, strepitando, giuravo loro Non esistete! Non esistete! rispondevano Ma come non esistiamo? Che vuol dire? Mi sentii orfano. La notte era una tragedia: avevo paura ad addormentarmi perché nel sonno il mondo si sarebbe dissolto e di nuovo ricomposto al mattino, per la mia perversione. Come tutte le battaglie vinte della mia vita - di quelle perdute scriverò un'altra volta - la vinsi da solo, in capo a qualche stagione. O meglio, misi da parte quella paura, la decapitai, e credetti di averla superata per sempre. Finché nell'89, mentre preparavo glottologia, a Radio Subasio passarono una canzone di Vecchioni che si chiama Gli anni, da un album che a sua volta si chiama Milady, e che fu abbastanza decisivo per la mia visione delle cose. A un certo punto Vecchioni canta Vorrei sognare senza dormire/perché il mondo non c'è quando io sono addormentato. Cazzo, avevo trovato mio padre. E il mio confessore, e la mia redenzione. Comprai il disco, naturalmente, e non rivelai mai a nessuno che dentro quella ballata - e dentro altre tre o quattro squassanti dello stesso album, di cui ho già parlato - c'era in qualche forma la mia vita. Smisi di sentirmi orfano, incompreso, e tutte quelle fesserie di cui la mia tarda adolescenza era ancora sospettosa, e mi convinsi che l'avventura umana non ha genitori naturali ma solo quelli che uno elegge a sua libertà. La cosa comica e che il più delle volte non lo sanno manco per sbaglio, quei padri così nobili, di aver messo al mondo un matto che li venera.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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