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1983

A quindici anni avevo una fidanzata al giorno, tutte immaginarie, tutte con facce diverse e lo stesso nome. Ero forte e inconsistente, le mie idee erano tre o quattro in tutto, non sapevo niente di niente, vivevo di puro istinto. Probabilmente hanno ragione quelli che dicono che a quindici anni sei come un animale da addomesticare, eppure in certe circostanze sono stato felice. La prima volta che è successo, per esempio, me la ricordo. C'era una festa in campagna, in un prato, sotto un grappolo di luci colorate appese tra i rami degli alberi. Capitò che Pietro mi permise di andarci, nonostante fosse lontano e dovessero accompagnarmi in macchina certi amici più grandi. La cena cominciava alle otto, l'orario in cui di solito dovevo rincasare. Eravamo una decina, mi accolsero come avessi la loro età, mangiammo e poi ci mettemmo in circolo a fumare. Io guardavo soltanto, respiravo le sigarette degli altri. A un tratto verso mezzanotte mi colse una sensazione di felicità mai provata prima, assieme al sospetto che la vita era anche quella cosa là, quello starsene leggeri a fumare e a guardare la notte senza per forza dover ogni volta competere con qualcuno. Una ragazza dagli occhi dipinti mi prese la mano e cominciò a leggerla, e rivelò che la donna che avrei sposato sarebbe stata contenta di aver sposato un artista. Dalla casa colonica lì accanto uscivano ancora vassoi di dolci, biscotti e liquori, e io bevvi sul serio per la prima volta, e dopo mi sentii inaffidabile, come dovrebbero essere sempre tutte le persone oneste. Misero dischi di gente che non conoscevo, musicisti inglesi e americani che a sentir quello che suonavano dovevano avere una considerazione più universale del genere umano, perché le loro canzoni erano per tutti, non dividevano la gente in steccati: erano suoni che corteggiavano chiunque avesse buone orecchie e un discreto senso del ritmo. Ballai impacciato con la chiromante, lei rise teneramente e poi in disparte dagli altri mi baciò, ma una volta sola, poi si staccò da me e corse via. Me ne innamorai come può innamorarsi un bambino: per sempre. Alla fine mi riportarono a casa, e la mutazione era cominciata. Erano le quattro del mattino, mi aspettavo che mio padre si inalberasse, invece dormiva beato e la mattina dopo non mi chiese niente, solo se ero stato bene, e quando gli dissi di sì se ne compiacque.

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Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra

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