Mettiamo che arrivi un'alluvione: le prime cose che metterei in salvo sarebbero le cose inutili. Vale a dire una trentina di romanzi, le sorprese degli ovetti Kinder, le foto al mare di ogni due di aprile, le canzoni di Roberto e le rondini che mi sono entrate dal camino. Al piano nobile della casa che non ho ancora comprato sistemerei tutto quel che è necessario a sopravvivere e che non posso usare come moneta di scambio: lì, in bella mostra, lo ammirerebbero gli amici e le donne che amo, quando passano a trovarmi colle galosce ai piedi. Io che sono innocente, io che adoro le persone e la gente mi spaventa, su quei ripiani sottrarrei al diluvio anche le nostalgie che ho raccontato, le parole con cui mi sono abbellito perché certe amiche mi corteggiassero, gli innamoramenti non dichiarati e tutti i baci che ho dato senza passione. Se mio padre ci fosse ancora, direbbe che per vivere mi basta quello, che non necessito di altro: acrobazie in borsa, speculazioni filosofiche, viaggi tra le stelle. Mi ha capito solo da vecchio, Pietro, o forse mi aveva capito anche prima ma ammetterlo gli costò fatica, e una buona dose di tempo. Me lo immagino, a contemplare quei relitti gocciolanti e a darmi ruvidamente la sua approvazione. Mi chiederebbe come mai la cartoleria in piazza ha un sacco di libri in vetrina ma non i miei e a tutti i suoi amici regalerebbe L'isola greca, dandomi però i soldi di ogni singola copia, perché tra padri e figli le cose van fatte per bene. Un pomeriggio di questi, quando la primavera è in avanscoperta e ci si illumina a far l'amore coi desideri, farei l'inventario di tutti quei beni mobili, con lui che invisibile mi controlla da dietro le spalle. E ci ragionerei a voce alta sulla proporzione fra il talento piccino che ho e i risultati raggiunti, che è un ragionamento pericoloso da fare se non hai le spalle larghe. Mi direbbe che merito di più, ne sarebbe convinto, e io ribatterei che va bene così perché l'ambizione non ha confine e l'unica sua figliolanza è l'infelicità. Risponderebbe sarcastico "Se lo dici tu...", senza che lo sfiori neanche per sbaglio la possibilità di darmi ragione.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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