Il mio balcone dà sugli alberi: una palizzata che mi scherma dalla strada, filtra la luce e incoraggia la malinconia. Qualche volta ci esco a fumare - le sere in cui le stagioni cambiano, e il primo rinfresco lenisce l'estate o una repentina primavera spaventa febbraio - ma la sigaretta non la respiro, è più che altro un gesto, una posa che mi aiuta a districare i grovigli e a guardare il cielo con più assegnamento. Il fumo schiara la notte e quando è in alto sembra che ravvivi le stelle, come uno che soffi sulle braci: così ho visto fare ai contadini nelle domeniche immaginate dell'infanzia. Immagino ancora oggi, non ho perso il vizio, e temo che tutto ciò che vedo sia appunto una fantasia, l'affabulazione di un uomo che non ha capito com'è che va il mondo, che è figlio del caso. Mi hanno spiegato che lassù, verso una qualche direzione, c'è una strada che non finisce mai, che passa attraverso il tempo e i buchi neri, e che a guardare la terra da un miliardo di anni luce vedrei la sua insignificanza. Perché allora do tanta importanza alla mia vita, a quello che scrivo, alle competizioni, all'età che cresce, al dolore, agli spaventi? Tento ogni giorno di affermare la mia ragione su quella degli altri e se non ci riesco - se quelli non si convincono, se prendono a detestarmi - ci sto male, non capisco come possano essere tanto ciechi. Benché sappia da un po' che la verità ha mille forme, cerco sempre di imporre le mie ridicole certezze: un'impuntatura infantile da cui non so guarire. Così fumo, e mentre comincia la notte m'appoggio con la schiena al muro. Una volta arriva una musica tribale da una macchina in corsa; un'altra un corteo di voci di ragazzi s'ingrossano e poi s'assottigliano, allontanandosi; un'altra ancora la mia speranza prende il sopravvento, e m'auguro con tutto il cuore che questa stanza buia in cui siamo prigionieri abbia una ragione comprensibile, e non men che soave.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Guardare con occhio aperto e distaccato la propria vita penso sia frutto di una consapevolezza che a volte può creare dolore, altre volte serenità e pace con se stessi. Grazie per gli spunti su cui riflettere!
RispondiEliminaSono d'accordo: è importante cercare di guardarla con la massima nitidezza possibile. Grazie a te.
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