C'erano aureole odorose di timo attorno ai suoi capezzoli: scegliendone una a capriccio ci appoggiavo castamente la testa, esausto e leggero. Nel sonno il seno le si alzava e abbassava a ritmo regolare, appena percettibile, e io ero come su una barca rotonda che mi cullava materna in mezzo all'oceano. Quella stanza una volta era un oceano, una volta un dirigibile, un'altra volta l'ultima roccaforte dei ribelli. Mentre lei dormiva io pensavo alla fortuna di essere nato nella sua stessa epoca. Perfino nel mondo - in quei crepuscoli dipinti e a dispetto delle apparenze - intuivo una bellezza esasperata, e la bellezza mi suggeriva fantasie, estro, affabulazioni. Smania e paura, sorelle maligne, restavano fuori della porta e tutto era come dovrebbe essere: una felicità sottile e infrangibile. Di certo le parole - che solo più tardi, da narratore, avrei definito sacre - suonavano inessenziali, ospiti imbucati a una festa. Per questo le centellinavo, e lei con me, appena il sonno interrotto le slacciava il sorriso e con le mani mi frugava, per ricominciare il gioco. Poi riapriva le labbra, e le serrava, beffando il bigottismo di chi ci avrebbe giudicati osceni. Nel frattempo veniva notte e gli animaletti raspavano davanti al cancello. Lei sobbalzava. "Non è niente, è l'istrice - la rassicuravo, - è la faina". "E se fosse un lupo?" - mi chiedeva. "Non ci sono lupi qua attorno, è una collina poco forastica" giuravo, e ne ridevamo, e ogni volta era questa commedia. Poi mi chiedeva delle canzoni che raccontavo a scuola, e che gliene parlassi, ed era di nuovo il tempo del vanto, perché rievocare ciò che si ama è quello: una vanteria. Già non si distinguevano la sponda, i vestiti scaraventati in giro, la sedia sfondata - Dove hai ficcato la mia t-shirt? - e allora mi faceva accendere la luce delle scale, perché ne entrasse una slavatura. Avremmo potuto rimanere lì per sempre, senza altra necessità che non fosse quella di riempire la dispensa per il lungo inverno, e vivere bastevoli l'uno dell'altra. Colpevoli, assolti per non aver commesso il fatto e infine innocenti come non lo è stato mai nessuno. Invece raccattavamo le nostre cose e tornavamo via, senza un motivo al mondo che lo pretendesse.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Che meraviglia quei momenti, in cui in una stanza è racchiuso tutto ciò che vuoi, e vorresti per sempre.
RispondiEliminaPerdonami, ho letto il tuo commento solo ora, con colpevole ritardo. Sì, quei momenti sono i migliori di tutta la vita.
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