Mi hanno detto che dovevo amarti e per non farmelo dimenticare me l'hanno scritto nel Dna. Così adesso non posso sottrarmi e la vita che ne deriva è atroce e piena, talmente colma che posto per altro non c'è. Questo è l'amore che posso darti, ragazza che eri bambina e prima ancora una pancia prominente, un amore che non ho scelto, non ho voluto, ma quando l'ho avuto ho scoperto che se ne fossi stato escluso lo avrei desiderato più di qualunque altro. Perdonami se sono contorto, non riesco oggi a scrivere più chiaro, non c'è niente di lineare in questa storia umana che è tutta nel rapporto tra noi due, che siamo teneri nemici. Sta, tutto il mondo che conosco, tutti i suoi sentimenti arditi, in questo contenitore che siamo io e te: lotte, guerre, battaglie, scaramucce, riappacificazioni, incomprensioni, tenerezze, ripicche, confidenze, pianti, strepiti e allegria. E fame, e sete, quando non ti vedo tornare, che la fame e la sete vere sono sciocchezze. E ansia e paura, quando ti intuisco storta, cupa, quando stai male, che l'ansia e la paura degli uomini che giocano col denaro, di coloro che amano semplicemente un altro uomo o un'altra donna, sono commedia dell'arte. So cos'è la dipendenza da quando sei al mondo, io che la dipendenza da polveri e vino non so cosa sia. So cos'è l'infinito: è il tempo che corre tra un mio messaggio e la tua risposta. Certe volte riempio il frigo e tu mi rimproveri: Compri troppe schifezze. Guarda qua: tramezzini, Kinder Bueno e Babybel, epperò sai che è una premura, un viziarti di leccornie, perché io sono padre e madre e devo fare tutte e due le parti, e poi frutta e verdura, pasta, carne e tutto quel che serve non mancano mai, tanto che casa nostra sembra il tabellone de Il pranzo è servito. Insomma Sei la mia vita e non è un modo di dire, ed è l'amore più umano che conosca, frangibile come la speranza, ma ugualmente testardo, anche se è al vento, alle intemperie, e perfino se è un amore interessato: a voler essere cinici è anche spirito di sopravvivenza perché qualsiasi tuo guaio sarebbe la mia fine.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
vengo poco, ultimamente, nel tuo blog, perché ogni volta piango, e dove ho il pc ho sempre gente intorno. Cercherò di leggerti sul cellulare. Perché nel piangere, di tanto in tanto, che male c'è.
RispondiEliminaNessun male. Ma vieni più spesso: ti aspetto.
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