Ai tempi in cui non avevo nemmeno un capello bianco, sulle stesse scale dove solo sette anni prima avevano sparato a Bachelet, mi innamorai di una ragazza complicata. Scienze politiche lei, Lettere io: che diavolo ci fossi andato a fare nella sua facoltà non me lo ricordo. Ricordo che i suoi occhi erano una trappola, il suo sedere un'invenzione di dio, e ci lasciammo andare per un po' a una divertente perversione, e saltai così facendo un paio di sessioni d'esame. La accompagnai tre o quattro volte a lezione e ogni volta era un casino indescrivibile, quell'aula magna. Il corso di Statistica lo teneva un prof associato e naturalmente non se lo filava nessuno. Al contrario: lo schernivano, e mentre lui tracciava grafici sulla lavagna e diagrammi cartesiani - o quel che diamine fossero - gli tiravano bucce d'arancia, lattine accartocciate, e lo canzonavano imitandone la voce chioccia. Lo stesso faceva la mia amica, finché mi scocciai e le dissi quel che pensavo: che era cretino quel che facevano lei e i suoi compari e che non avrei più frequentato quelle lezioni che per altro mi suonavano assurde e incomprensibili. Non se la prese, ricordo che fece un'alzata di spalle, rispose che ero uno che non si sapeva divertire e rallentammo un poco la frequentazione. Il giorno dell'esame tuttavia andai con lei e non parve seccata, che ci fossi. Era allegra, sufficientemente preparata, ammise, e con la voglia di saltarmi addosso non appena fossimo stati a casa. La prospettiva non mi faceva proprio schifo - aveva un appartamento dalle parti di Termini - e così dimenticammo la freddezza dei giorni precedenti e ci infilammo nel branco dei candidati. Quando entrammo in aula lei impallidì, si voltò verso di me e implorò Andiamo via. Il prof sbertucciato era ancora là, al posto del titolare, la cui assenza evidentemente era più lunga di quanto quei cialtronacci avessero calcolato. E meno male che facevano statistica. Convinsi la mia ragazza a restare, ad affrontarlo e vedere cosa succedeva. La convocarono quasi subito, per seconda o per terza. Tutto si svolse secondo le regole, lei teneva gli occhi bassi, il prof era puntiglioso e però cortese. Non dava l'impressione di cercare vendette. Alla fine le propose ventotto, e mi parve una valutazione onesta. Lei improvvisò un sorriso che era un ringraziamento e forse un modo per chiedere scusa. Si alzò, gli strinse la mano e a quel punto l'uomo gliela trattenne, con vigore: Impari a rispettare il lavoro degli altri, signorina, come io ho rispettato il suo - le disse. La mia amica restò zitta per qualche secondo, poi rispose, a bassa voce Certo, lo farò. Andammo via e l'accompagnai a casa. Forse ci dedicammo l'uno all'altra, quella sera, con generosità. Ma mica ne sono sicuro. Una settimana dopo ci perdemmo di vista per sempre.
Ai tempi in cui non avevo nemmeno un capello bianco, sulle stesse scale dove solo sette anni prima avevano sparato a Bachelet, mi innamorai di una ragazza complicata. Scienze politiche lei, Lettere io: che diavolo ci fossi andato a fare nella sua facoltà non me lo ricordo. Ricordo che i suoi occhi erano una trappola, il suo sedere un'invenzione di dio, e ci lasciammo andare per un po' a una divertente perversione, e saltai così facendo un paio di sessioni d'esame. La accompagnai tre o quattro volte a lezione e ogni volta era un casino indescrivibile, quell'aula magna. Il corso di Statistica lo teneva un prof associato e naturalmente non se lo filava nessuno. Al contrario: lo schernivano, e mentre lui tracciava grafici sulla lavagna e diagrammi cartesiani - o quel che diamine fossero - gli tiravano bucce d'arancia, lattine accartocciate, e lo canzonavano imitandone la voce chioccia. Lo stesso faceva la mia amica, finché mi scocciai e le dissi quel che pensavo: che era cretino quel che facevano lei e i suoi compari e che non avrei più frequentato quelle lezioni che per altro mi suonavano assurde e incomprensibili. Non se la prese, ricordo che fece un'alzata di spalle, rispose che ero uno che non si sapeva divertire e rallentammo un poco la frequentazione. Il giorno dell'esame tuttavia andai con lei e non parve seccata, che ci fossi. Era allegra, sufficientemente preparata, ammise, e con la voglia di saltarmi addosso non appena fossimo stati a casa. La prospettiva non mi faceva proprio schifo - aveva un appartamento dalle parti di Termini - e così dimenticammo la freddezza dei giorni precedenti e ci infilammo nel branco dei candidati. Quando entrammo in aula lei impallidì, si voltò verso di me e implorò Andiamo via. Il prof sbertucciato era ancora là, al posto del titolare, la cui assenza evidentemente era più lunga di quanto quei cialtronacci avessero calcolato. E meno male che facevano statistica. Convinsi la mia ragazza a restare, ad affrontarlo e vedere cosa succedeva. La convocarono quasi subito, per seconda o per terza. Tutto si svolse secondo le regole, lei teneva gli occhi bassi, il prof era puntiglioso e però cortese. Non dava l'impressione di cercare vendette. Alla fine le propose ventotto, e mi parve una valutazione onesta. Lei improvvisò un sorriso che era un ringraziamento e forse un modo per chiedere scusa. Si alzò, gli strinse la mano e a quel punto l'uomo gliela trattenne, con vigore: Impari a rispettare il lavoro degli altri, signorina, come io ho rispettato il suo - le disse. La mia amica restò zitta per qualche secondo, poi rispose, a bassa voce Certo, lo farò. Andammo via e l'accompagnai a casa. Forse ci dedicammo l'uno all'altra, quella sera, con generosità. Ma mica ne sono sicuro. Una settimana dopo ci perdemmo di vista per sempre.
ti ricordi anche il voto che prese e non ti ricordi se passasti o no la sera con lei ?!!..sei proprio un prof, anche peggio di me!!!...il racconto è bellissimo, cinematografico, e si legge tutto d'un fiato...
RispondiEliminaForse me lo ricordo ma faccio finta di no... Grazie del giudizio, assai lusinghiero.
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