Davanti casa mia c'è questo marciapiede dritto come una promessa dove mio padre, incamminandosi, diventava papà. Da un anno e mezzo ci abito sopra, se mi affaccio dalla finestra del soggiorno lo vedo, eppure lui non passa mai. Talora mi affaccio anche per guardare se per caso io e lui passiamo insieme ma non è mai successo: magari passiamo zitti quando mi addormento sfinito, e tutto è inutile. Oppure passiamo in certe sere d'aprile verso le otto, quando l'ora legale ha già preso il suo posto nel mondo e il cielo sorride, colle striature bianche a sporcare il celeste, e lui, col chiavistello della tabaccheria in mano, smette di essere quel che solitamente è e diventa l'uomo che vorrei fosse stato. Se è così, mi affaccerò nelle sere d'aprile che verranno, con la speranza rinnovata. Perché quel marciapiede deve avere, nell'impasto del cemento, nei sassi colorati che sembrano di fiume, nel labbro spaccato dai paraurti, il potere misterioso di sciogliere gli uomini e far loro accorgere dei figli, della loro piccolezza, della temerarietà con cui affrontano la parte che gli tocca, quando cercano di arrampicarsi sulle spalle dei genitori. A quel punto l'universo tratterrà il respiro perché si compirà il senso per cui è stato creato: perché un ragazzo invecchiato, sul palco luminoso di una sera d'aprile, perdoni suo padre. E allora, dalla finestra arrampicata di via XX settembre, mi guarderò assolvere mio padre come non ho mai fatto: completamente, senza sottotesti, obiezioni, riserve di rancore. Ho capito che ognuno è il padre che ha avuto, se non riesce a divincolarsi da quella tremenda eredità. E che per essere padri migliori bisogna uccidere la memoria di chi ci ha messo al mondo e costruirsi il mestiere improvvisando, avendo a disposizione, se si è fortunati, appena un etto di buon senso e qualche grammo avanzato d'amore. Non tutti sono capaci di farlo, io ci sto provando da una vita. Per questo mio padre è innocente: per non aver commesso il fatto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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