Ho un'amica che ogni tanto ha bisogno di me, mi chiama, vuole che vada da lei, deve parlarmi di cose eccentriche che solo io - giura - posso capire. Stanotte per esempio era passata l'una, arriva un messaggio, so che è lei: chi altri mi può scrivere a quell'ora? Mi infilo il cappotto e la raggiungo, abita a un passo da me, talmente vicina che talora mi sembra stia dentro la mia testa, a quell'ora Narni è gelida e spettrale come nel racconto che ho nell'anima, di castelli e di vento, e che prima o poi scriverò. La trovo in cucina in vestaglia e pantofole, a preparare il Ciobar in un pentolino. Dimostra qualche anno meno di me ma l'età è la stessa, vanta una sequela di amori persi per sventatezza e ha un debole per la vita quando esplode - così la definisce quando cambia, sterza, prende direzioni tutte sue, ingovernabili. Solo che poi ne paga le conseguenze e io con lei. Si è innamorata un'altra volta - dice - e come le cento altre io sono il suo biografo. Le ho suggerito di aprire un blog, scrivere un libro e lasciarmi dormire, ma non c'è verso: Quegli amori non esistono - protesta - se non posso raccontarteli. In realtà ha un compagno fisso da un po' di tempo ma è presa da un altro uomo, più giovane, dagli occhi tristi, è il suo fisioterapista, si è lussata una spalla in palestra, è andata da lui e quando l'ha visto - bum - il colpo di fulmine. Sono usciti a cena una volta o due, lei non sa se lui sa del suo compagno, non vuole dirglielo, lascia che le cose accadano solo se devono accadere. Si sono dati qualche bacio sulle guance, in un paio di circostanze lei ha indugiato con le labbra più del dovuto, appena oltre il tempo che dura un bacio innocente. Lui non ne sembrava infastidito. E adesso che posso fare? - mi domanda come fossi il terapeuta dei cuori infranti. Milady, le rispondo, - anzitutto potevi aspettare domattina, e poi non lo so, che puoi fare: vivo in queste situazioni da sempre e non conosco nessun rimedio con cui trarsene fuori. Mi guarda, sospira, fa gli occhi tristi anche lei, però dolci, e annuisce. Beviamo il Ciobar sul tavolo della cucina, mentre fuori la notte sembra placarsi in un giro di vento.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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