Pochi mesi prima di morire - ma non sapendo ancora di essere malato - mio padre mi chiese se gli procuravo dei dischi di Paolo Conte, che gli era venuta voglia di belle canzoni. Si era creato uno spazietto tutto suo, tra il camino e la finestra che dà sul vicolo, nella parte più antica di casa, e ci aveva piazzato uno stereo che gli avevo regalato io e un po' di cassette di musica classica. Io gli dicevo che il suono dei cd era migliore e che glieli avrei comprati ma lui insisteva che gli piaceva così, non era il caso di star dietro a tante modernerie. Quando telefonavo ai miei rispondeva sempre mamma, perché papà era con le cuffie alle orecchie. Amava isolarsi dal mondo dopo essere stato per tutta la vita al centro del caos: la tabaccheria in piazza, rumorosa, fumigante, zeppa di varia umanità come un porto di mare. Fu un tempo relativamente sereno, in cui mi chiese anche se gli sintonizzavo la radio sui miei programmi e in cui, di tanto in tanto, lo intuivo felice. Aveva fatto la vita che voleva, probabilmente, al netto dei rimpianti sottili che ognuno si porta in dote quando invecchia. Cominciammo a parlare come non avevamo mai fatto di cose apparentemente esterne a noi due, a quel rapporto padre figlio che logora e tradisce l'inconsistenza del mondo. In realtà erano la scusa, quelle cose altre, per studiarci, provare a capirci, dopo che per tutta la vita eravamo stati estranei, forse ostili. E siccome lui me ne dava l'occasione, provai a raccontarmi proprio per il tramite di quelle canzoni che aveva sempre detestato e che di colpo, a ottant'anni, gli sembravano necessarie. Per cui non solo gli trovai quattro o cinque dischi di Paolo Conte ma gli riempii casa di album di Rino Gaetano, Vecchioni e De Andrè. Disse che non avrebbe avuto il tempo di ascoltarli tutti, e fu una specie di presagio che lì per lì non colsi, e in effetti avvertiva dei lievi insistenti dolori al fianco che - lo capii dopo - interpretò come il segnale della fine. Resta il fatto che gli artisti che han consolato la mia vita a un certo punto consolarono anche la sua, e fu per me un risarcimento al disprezzo che a quella musica papà aveva sempre riservato. Per cui, a conti fatti, son convinto che se ne sia andato col sospetto che non fossi del tutto da biasimare quando dicevo che mi era indispensabile.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post