Una settimana fa, mentre ero in giro senza ombrello in una città non mia, improvvisamente mi si rovesciano addosso pioggia e vento, e allora mi rifugio in chiesa. La tempesta ha lavato le strade, sono tutti chiusi in casa, è aperto solo un tabaccaio ma è troppo lontano. C'è la messa, sta cominciando l'omelia. Sono le sei di pomeriggio, i fedeli sono pochi, una quindicina, il prete avrà quarant'anni, il piglio di un guerrigliero boliviano, la barba folta e mal curata, gli occhi fiammeggianti. Sono attratto dai tipi così, sono estremamente letterari, come tutti gli eccentrici, per cui mi fermo ad ascoltarlo sedendomi accanto a un braciere di candele, in cerca di tepore. Il discorso che fa sull'amore mi suona curioso, sarà che io ho un concetto di amore molto terreno. Lui parla invece dell'amore di Dio, e non potrebbe essere altrimenti, quello è il suo capo. La parte della predica che mi convince poco è quando dice che non dovremmo perder tempo a innamorarci delle persone, a voler loro bene sì ma non a innamorarcene. Quel tipo di attrazione totalizzante dovremmo provarla solo per il padreterno. E pensare che io ho fatto sempre il contrario. Mi sono innamorato così tanto delle persone che quando è successo non c'è stato posto per altro, soprattutto per Dio. Non mi serviva più, non era necessario. Quando mi sono innamorato di una donna, lei è stata perfettamente bastevole alla mia vita e ai miei desideri. Perfino quando quell'amore, come accade ancora oggi, era muto, sottinteso, non espresso. Quando l'amore è così, inerte, è fortissimo, perché l'amore in potenza è poderoso più dell'amore in atto. Io non so se Dio ha l'odore delle donne che ho amato, i loro occhi, la stessa curva delle labbra, la voce quando pronuciavano il mio nome, e non so se a vederlo, quando sarà, mi verrà la stessa emozione di oggi a vedere lei. Sospetto però che quel prete deve essersi innamorato, una volta, ed esserci rimasto sotto. E così s'è consolato con l'amore di Dio che per quanto grandioso, non potrà mai esserlo come questo piccolo sentimento terreno per il quale siamo terribilmente felici di stare al mondo.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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