La signora gatta, madre di mille figli perduti, annusa i ritagli di carne che le ho dato e decide che non le piacciono, ma non si sottrae alle mie carezze. La radura è umida come tutta la campagna di novembre, appena uno spicchio di sole cade in un angolo, ed è lì che vado ad abitare per mezz'ora, munito di poltroncina, libro di mille pagine e memorie leggere che scendono dalle colline. C'è un bene che è quello sponsorizzato dai preti di tutte le religioni del mondo, e un altro perverso e scosceso, che è quello che praticano gli scrittori quando ci danno dentro, e anche i musicisti mentre arrangiano un pezzo nuovo, e i pittori sfrontati di donne appariscenti. Sono due tipi di bene neanche troppo distanti, entrambi hanno come obiettivo la consolazione del genere umano, solo che nel primo caso per mezzo di noiose opere di carità, nel secondo per il tramite dell'arte, e se permettete è tutta un'altra storia. Prima che il sole sparisca anche da quel pizzo di giardino me ne ricordo, che ho fatto del bene scrivendo, perché me lo hanno detto, taluni con le lacrime agli occhi. A Siracusa, a Lucca, a Genova, a Novara, e in certi paesi sperduti dell'Appennino, ovunque ho portato le mie avventure, davanti a due o a duecento persone, qualche anima bella alla fine mi si è avvicinata e mentre firmavo una dedica insulsa mi ha confessato quella devozione. Ecco: la confessione. Anche quel gesto accomuna i due tipi di bene, quello delle messe cantate e quello dei romanzi, l'atto sacro e l'atto sacrilego, la creazione di dio e la creazione umana, presuntuosa se mai ne esiste una. Per cui, credo che dovrebbero metterlo nel catechismo, il bene laico, così da risarcire gli artisti di tutte le lusinghe che vengono loro negate. Anche la gatta schizzinosa è d'accordo, me ne accorgo da come mi guarda. In un'altra vita dev'essere stata una Ipazia, una Artemisia Gentileschi, una Gaspara Stampa, e anche lei avrà fatto del bene senza che nessuno gliene rendesse merito.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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