Alfredo mi dice a che serve uno scrittore. Non è che me lo chiede, e del resto lui non lo è: me lo dice proprio. Me lo dice perché intuisce talora in me una qualche stanchezza e vorrebbe che io non smettessi di scrivere. La tentazione ce l'ho, naturalmente. Ce l'ho quando faccio una fatica del diavolo per un risultato trascurabile, ce l'ho quando mi ricoprono di elogi ma poi per vendere un libro devo raccomandarmi ai santi, ce l'ho quando un idraulico per cambiare una guarnizione e con dieci minuti di lavoro mi chiede ottanta euro. Alfredo mi prega di non smettere, un po' perché gli piace quello che scrivo (sono il suo sollazzo preferito) e un po' perché ha intuito che se c'è una cosa che potevo fare nella vita è questa. Mi invidia perché vivere di parole è fantastico, ma lui fa il commercialista, capite che razza di paraculo? Siccome gli voglio bene da che andavamo a scuola insieme, lo sto a sentire più di quanto stia a sentire tanta altra gente. Mi racconta come sono, quando ci andiamo a prendere un caffé e due fette di pain d'epices in piazza dei Priori, perché ne sa più di me, sul mio conto. Mi dice che non sopporto la gente e nello stesso tempo la amo, che a sentir lui è una contraddizione che gli scrittori hanno e tutti gli altri no e che perciò sono un privilegiato. Quelli della mia razza amano addolcire le controversie, sanno scendere a patti senza chinare la testa, ottengono ciò che è loro di diritto senza sotterfugi, inganni e malnaterie, dice. "Siete animali graziosi - giura, - senza di voi il mondo non andrebbe avanti. Il guaio è che il mondo non lo sa, vive confortandosi con gli scrittori ogni momento che può ma lo fa soprappensiero, tra una speculazione in borsa e un tradimento, e così il conforto che ne trae, la direzione a vivere, sono sentimenti sottovalutati, tanto che le cose che scrivete, per le quali non dormite la notte, tutti gli amori impraticabili e nocivi, finiscono per essere giudicati solo intrattenimento". Sono anni che mi fa questi discorsi, mi sono rotto. Però continuo a dargli retta, va a sapere perché. E a scrivere per tutti quelli che capitano sulle mie storie feroci per non aver niente di meglio da fare.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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