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Foto di famiglia

C'è stato un tempo, ormai morto, in cui la famiglia allargata si radunava la domenica per il pranzo solenne e per le partite di pallone. Non tutte le settimane, ma se capitava che a qualcuno venisse l'idea, si facevano le cose per bene. Non si poteva cominciare a mangiare più tardi dell'una perché altrimenti non ci sarebbe stato il tempo per il liquore e per digerire almeno la lasagna, anzi che ci fosse il calcio d'inizio. Alle tre la tavola doveva essere sgombra, a parte i dolcetti che venivano lasciati per chi si fosse fatto goloso tra il primo e il secondo tempo. Le donne di casa erano onorate di fiori e promesse di pomeriggi al cinema, in cambio del menù che avevano preparato, e naturalmente gli uomini lavavano i piatti e rigovernavano la cucina. La stanza del camino, da sempre detta misteriosamente cucina vecchia, che in realtà cucina non era mai stata, era la nostra tribuna Monte Mario. Si schieravano le poltrone a semicerchio, e laggiù, a tre metri, su una parete ben visibile da tutti, la televisione cominciava a trasmettere le immagini dal campo. Non importava che ci fosse il derby d'Italia o più umilmente uno scontro salvezza, il calcio diventava una scusa per stare insieme, raccontarsi le rispettive vite, il lavoro e come andava, i desideri, le speranze, le sconfitte, i progetti, l'avvenire. E il passato, si capisce, che tra un calcio d'angolo e le discusioni se uno spintone in area fosse o no da rigore, veniva fuori come evocato da noi che eravamo ormai grandi e dai vecchi che giovani lo erano stati. E io me li ricordavo, coi capelli tutti in testa e la baldanza dei giovanotti in cerca d'avventure, in quegli anni Settanta rapaci in cui tutti i Natali e le feste comandate erano celebrate dentro quella stessa stanza, alla luce delle faville del camino, con le pietre secolari fuori nel vicolo, indifferenti alle atrocità degli uomini e alle loro inconsulte felicità. 

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