C'è stato un tempo, ormai morto, in cui la famiglia allargata si radunava la domenica per il pranzo solenne e per le partite di pallone. Non tutte le settimane, ma se capitava che a qualcuno venisse l'idea, si facevano le cose per bene. Non si poteva cominciare a mangiare più tardi dell'una perché altrimenti non ci sarebbe stato il tempo per il liquore e per digerire almeno la lasagna, anzi che ci fosse il calcio d'inizio. Alle tre la tavola doveva essere sgombra, a parte i dolcetti che venivano lasciati per chi si fosse fatto goloso tra il primo e il secondo tempo. Le donne di casa erano onorate di fiori e promesse di pomeriggi al cinema, in cambio del menù che avevano preparato, e naturalmente gli uomini lavavano i piatti e rigovernavano la cucina. La stanza del camino, da sempre detta misteriosamente cucina vecchia, che in realtà cucina non era mai stata, era la nostra tribuna Monte Mario. Si schieravano le poltrone a semicerchio, e laggiù, a tre metri, su una parete ben visibile da tutti, la televisione cominciava a trasmettere le immagini dal campo. Non importava che ci fosse il derby d'Italia o più umilmente uno scontro salvezza, il calcio diventava una scusa per stare insieme, raccontarsi le rispettive vite, il lavoro e come andava, i desideri, le speranze, le sconfitte, i progetti, l'avvenire. E il passato, si capisce, che tra un calcio d'angolo e le discusioni se uno spintone in area fosse o no da rigore, veniva fuori come evocato da noi che eravamo ormai grandi e dai vecchi che giovani lo erano stati. E io me li ricordavo, coi capelli tutti in testa e la baldanza dei giovanotti in cerca d'avventure, in quegli anni Settanta rapaci in cui tutti i Natali e le feste comandate erano celebrate dentro quella stessa stanza, alla luce delle faville del camino, con le pietre secolari fuori nel vicolo, indifferenti alle atrocità degli uomini e alle loro inconsulte felicità.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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