Ogni giorno piovoso, lamentoso di vento, che rompe le stecche agli ombrelli e fa ridere rabbrividendo, è un giorno sacro, un invito a chiudersi in casa a sperare che la tempesta non passi così in fretta. Lo so che tanti non la pensano come me, che a tanti quel tempo furioso complica la vita e scatena raffreddori ostinati, ma io sono autunnale, di temperamento e di scrittura, e trovo che non ci sia palcoscenico migliore della burrasca per raccontare storie. Naturalmente il discorso vale anche quando sono gli altri a raccontarle a me. Per esempio, nei fine settimana che si prevedono temporali capita che riempia una borsa di libri farciti di brughiere, castelli maledetti, figuri intabarrati, alchimisti di Praga e viandanti di mezzanotte e me ne salga in collina, chiuda il cancello davanti al prato intirizzito, tiri i fermi alle finestre per non farle sbattere e corteggi la felicità. Yes, proprio lei. Ho del resto un concetto di felicità facilmente raggiungibile, domestica, è una specie di amica permalosa che quando la trascuro si allontana, ma poi ogni volta mi perdona perché non è capace di tenere il broncio, e torna. Così, con lei per casa che mi vizia e mi fa sembrare il mondo meno cattivo, accendo il fuoco come un gentiluomo dell'Ottocento, cuocio due castagne, due fette di pane, sfamo i gatti, immagino l'ululato di lupi che per disgrazia sulle montagne attorno non ci sono più e aspetto che arrivi la sera. A quel punto il palcoscenico è pronto, ci accendo una luce sopra, una lampada a olio se voglio fare il fanatico, e viaggio dentro quelle storie che mi son portato dietro come un cacciatore di vampiri che si è aggiunto all'ultimo sulla diligenza, un attimo prima che partisse per i Carpazi. Le ruote cigolanti passano lambendo i crepacci, gli orridi di cui non si intuisce il fondo, e tutto quel teatro di orrore e bellezza è così simile alla mia vita che non posso che trovarmici perfettamente a mio agio.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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