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Yes, la felicità

Ogni giorno piovoso, lamentoso di vento, che rompe le stecche agli ombrelli e fa ridere rabbrividendo, è un giorno sacro, un invito a chiudersi in casa a sperare che la tempesta non passi così in fretta. Lo so che tanti non la pensano come me, che a tanti quel tempo furioso complica la vita e scatena raffreddori ostinati, ma io sono autunnale, di temperamento e di scrittura, e trovo che non ci sia palcoscenico migliore della burrasca per raccontare storie. Naturalmente il discorso vale anche quando sono gli altri a raccontarle a me. Per esempio, nei fine settimana che si prevedono temporali capita che riempia una borsa di libri farciti di brughiere, castelli maledetti, figuri intabarrati, alchimisti di Praga e viandanti di mezzanotte e me ne salga in collina, chiuda il cancello davanti al prato intirizzito, tiri i fermi alle finestre per non farle sbattere e corteggi la felicità. Yes, proprio lei. Ho del resto un concetto di felicità facilmente raggiungibile, domestica, è una specie di amica permalosa che quando la trascuro si allontana, ma poi ogni volta mi perdona perché non è capace di tenere il broncio, e torna. Così, con lei per casa che mi vizia e mi fa sembrare il mondo meno cattivo, accendo il fuoco come un gentiluomo dell'Ottocento, cuocio due castagne, due fette di pane, sfamo i gatti, immagino l'ululato di lupi che per disgrazia sulle montagne attorno non ci sono più e aspetto che arrivi la sera. A quel punto il palcoscenico è pronto, ci accendo una luce sopra, una lampada a olio se voglio fare il fanatico, e viaggio dentro quelle storie che mi son portato dietro come un cacciatore di vampiri che si è aggiunto all'ultimo sulla diligenza, un attimo prima che partisse per i Carpazi. Le ruote cigolanti passano lambendo i crepacci, gli orridi di cui non si intuisce il fondo, e tutto quel teatro di orrore e bellezza è così simile alla mia vita che non posso che trovarmici perfettamente a mio agio. 

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