Venerdì ero in Toscana, a Pratovecchio, lì c'è un giardino rotondo con altalene, una fontana e due panchine all'ombra: prendo gli occhiali e mi siedo un momento a leggere Robinson Crusoe. In capo a dieci minuti arrivano un uomo e una donna, lei parcheggia e fa per andarsene - prima parlano un po' dei fatti loro, si rinfacciano cose, in certi tornanti del ragionamento lei è sprezzante, resuscita malintesi vecchi di anni. Alla fine si incammina per una mostra d'arte e lui si sistema sulla panchina accanto alla mia a leggere Goffredo Parise. Defoe mi piace ma quell'uomo, coi suoi gesti sofferti, il tentativo vano di trovare una posizione comoda tra le stecche, è un naufrago pure lui, è materiale da romanzo. Intuisce la mia curiosità e mi chiede Lei riesce a leggere senza occhiali? e io Solo tenendo il libro a una certa distanza: per questo cerco di portarmeli sempre dietro. Mi racconta che li ha scordati in macchina e che sua moglie si è portata via le chiavi: Ma non ho voglia di arrivare fin laggiù a prenderle: le salta facilmente la mosca al naso. Ha urgenza di confidare a un estraneo la sua infelicità, che poi è quella di tanti che stanno insieme per dovere, intervallata da giorni inspiegabilmente placati, talora perfino luminosi. A un tratto davanti a noi passa una ragazza sui quaranta, è appena uscita dalla pasticceria di fronte, tiene in mano un vassoio di dolci, incrocia lo sguardo dell'uomo e inaspettatamente si ferma come incantata. Che belli gli uomini maturi che leggono senza occhiali, ne sono affascinata, dice violando le regole più elementari di discrezione. A me non mi si fila per niente, la sua attenzione è tutta per quest'uomo e la sua disperazione addomesticata, forse anche lui scrive e con quella tempesta quieta ci ha riempito come con una farcitura storie buffe e diari di viaggio. La ragazza gli si siede accanto, regge in equilibrio il vassoio come un ostensorio, parlano e ridono, ma quello che dicono mi arriva poco perché parlano sottovoce. Si scambiano i numeri di telefono, alla fine, e poi lei va via controvoglia, lasciando una parte di sé, la più interessante, là in giro. Quando torna la moglie l'uomo sembra più disposto a sopportarne le lune, mi saluta con un gesto, mi confida in un orecchio Gli amori dovrebbero essere tutti così: fortuiti. Annusarsi, piacersi, stare al gioco. E poi basta. Altro che costruirci sopra tutta una vita, e dopo se ne vanno come sono arrivati: insofferenti l'uno all'altra e incapaci di interrompere la finzione.
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C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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