Sono quindici anni che racconto di me: in tutto quello che ho scritto, che qualche editore gentile ha pubblicato, che tanti amici hanno avuto la generosità di leggere, ci sono io, camuffato o con la mia faccia nuda. Ho cominciato per difendermi dalla realtà, quando a mia moglie diagnosticarono una cosa stupida e feroce: il mieloma multiplo. Ho continuato quando lei se n'è andata perché a quel punto ho capito che era una terapia come un'altra, ma più di altre adatta alla mia indole vanitosa. Non so se tutti gli scrittori la mostrano, so che praticamente tutti ce l'hanno e io non faccio eccezione. Me ne sono reso conto quando ho capito che mi lusingavano i commenti della gente perché giocavano con la presunzione di essere artista, di saper modellare le parole e legarle ad altre dentro una sintassi che intercettava certi dolori collettivi e perfino certe nostalgie felici, e che dolori e nostalgie sono le ascisse e le ordinate della narrativa. Da allora, scrivere tutti i giorni è leggerezza e ambizione, il carburante è quello, lo scrittore è come una macchina ibrida che va a benzina e a elettricità. Ho uno stile mio, una poetica, sì. Il che non significa che siano conquiste straordinarie, né che hanno chissa che qualità, ma solo che sono originali, le ho costruite un esperimento alla volta, e a me adesso piacciono così, come a un padre gorilla piacciono i suoi figli goffi e pelosi. Sono ancora convinto che le parole possano curare la gente, le parole più delle storie, perché le parole suonano, rimbombano, esplodono, sono contenitori del mondo, sono genealogia e avvenire. Sono la nostra avventura di uomini senza l'ingombrante necessità di una trama, e quindi di un intrattenimento. Sono puro suono, spirito assoluto. Quelle scritte di parole poi non sono soltanto la nostra carta d'identità, ma una sentenza: gli avveduti ci giudicano non in base a quel che scriviamo ma in base al come. Con le parole possiamo combattere da innocenti, senza spargimento di sangue, al contrario di quel che ci dicono di fare ora, che ci vorrebbero tutti soldati sacrificabili. Combattere cosa? Il razzismo, la misoginia, le diseguaglianze. E perfino le guerre, le dittature, certo, anche loro si combattono con le parole. Perché senza le parole giuste, senza il rispetto della loro forma e della storia millenaria che certe hanno, senza l'incastro di cui han bisogno per suonare intonate, nessuna idea per quanto luminosa guarirà mai i malanni del mondo.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
come sempre, incantata
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