C'è questa canzone dei Pinguini dentro cui un ragazzo ha perso la sua donna, è morta, e lui non sa darsi pace. Se la prende coi medici, con dio, piange fiumi di lacrime, cura la disperazione con farmaci che gli annebbiano le idee e lo intorpidiscono: Se sapessimo quanto tempo ci resta da vivere, ora, in questo momento, se qualcuno ce lo dicesse con tanto di prove, proprio in termini di anni giorni e minuti, diventeremmo le persone più malvagie del mondo. La ragazza aveva un cane, cui lui non è mai stato simpatico. Gli ringhiava contro, lo mordeva: Vuole solo giocare, è un cucciolo. Dopo il funerale, col cuore per terra, lui lo va a prendere, lo porta a casa sua. Lì comincia un altro racconto, che poi forse è solo un'appendice eccentrica del primo. Il cane e il ragazzo cominciano a detestarsi di meno. Il ragazzo ha bisogno di appoggiare un po' il dolore su altre spalle, senza parlarne però, e il cane gli sembra la persona più adatta: Che buffo che ho pensato a lui come a una persona. A tutti e due manca la ragazza, però ogni tanto la rivedono in sogno, per questo non fanno che dormire. Cane e padrone passano il tempo in panciolle, ad annoiarsi, a farsi venir sonno. Poi il sogno non basta più, è necessariamente una storia a tre ma uno dei tre personaggi è inconcreto, e il ricordo dei sogni è troppo irrequieto, va via appena provi a recintarlo, a fermarlo in memoria. Un'amica chiromante un giorno confida al ragazzo che i cani parlano con gli spiriti: Sì sì, puoi anche non credermi ma è proprio così. Sei una mezza matta, stammi lontano. Da quel giorno il ragazzo diventa lugubre, speranzoso. Sente come delle vibrazioni, dentro casa, onde di energia, le chiama, perché non sa come altro definirle. E sembra che il cane ne sia sconvolto: quando l'aria si flette mugola, guaisce, si accuccia ai piedi del letto, guarda in alto, verso lo specchio con gli occhi matti. Il ragazzo allora gli affida un messaggio: dille che torni presto, e che rimane la mia luna. Però non è sicuro che il cane abbia capito: abbaia al vento di primavera, si fissa a guardare un punto lontano, dove non c'è niente. Alla fine il ragazzo decide che quel dolore risanato e quella speranza incerta sono le coordinate della sua nuova vita, e questo equilibrio precario, incredibilmente, gli regala una serenità che gli calza a pennello, come un vestito su misura.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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