Efrem è un mio amico che ha sempre odiato i suoi genitori. Li ha sempre odiati per via del nome, è convinto che lo abbiano fatto apposta. Ogni volta che ci vediamo, tre o quattro volte l'anno, state pur certi che alla fine o all'inizio del discorso tirerà fuori quella storia e anche se i suoi sono morti da un pezzo finirà per chiedermi cosa ne penso e se anch'io credo che abbiano voluto che fosse deriso da tutti. Io tento sempre di vedere il lato positivo della cosa, gli dico che la gente si incuriosice a sentir come si chiama e che anziché derisione viene voglia di scoperta. Lo convinco e non lo convinco, e sempre se ne va col muso lungo, e il sospetto che io sia un bugiardo di professione. Il nome eccentrico lo tenta a fare cose eccentriche, giura che è un bisogno di coerenza. Quando viaggia lascia asciugamani nei bagni degli alberghi, è l'unico che invece di fregarseli regala i suoi, e talora nei supermercati la merce in offerta la evita come la peste e per comprarla aspetta che rincari. Un giorno che era ubriaco disse che mi invidiava, avrebbe voluto pure lui fare lo scrittore. Poi si corresse, ammise che non gli andava di ricamare sopra a ogni stupida questione, non è questa la vita. "Perché tu fai così, no?" mi chiese e io non trovai argomenti per contraddirlo. Poi disse che tra l'istinto e l'arte preferiva l'istinto, che passa via in fretta, se lo soddisfi, e sì, dopo ne arriva un altro ma non hai che da assecondare anche quello e trattenerlo al massimo come ricordo inerte. "Però con un nome come il mio, non fare l'artista è uno spreco" concluse. Per cui ogni tanto mi racconta che seppellisce centesimi nelle sponde dei letti, per lasciare una prova del suo soggiorno ai motel di frontiera, oppure sale sul palco di un teatro vuoto e inventa una piroetta, e recita venti minuti in bocca a nessuno. Succede a quel punto, allo snodo di quella confidenza, che gli ritorco contro la sua invidia: "Beato te" gli rivelo: "è fantastico essere un artista senza ambizioni" perché tra me e lui, alla fine dei conti, non so davvero chi sia il più fortunato.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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