Efrem è un mio amico che ha sempre odiato i suoi genitori. Li ha sempre odiati per via del nome, è convinto che lo abbiano fatto apposta. Ogni volta che ci vediamo, tre o quattro volte l'anno, state pur certi che alla fine o all'inizio del discorso tirerà fuori quella storia e anche se i suoi sono morti da un pezzo finirà per chiedermi cosa ne penso e se anch'io credo che abbiano voluto che fosse deriso da tutti. Io tento sempre di vedere il lato positivo della cosa, gli dico che la gente si incuriosice a sentir come si chiama e che anziché derisione viene voglia di scoperta. Lo convinco e non lo convinco, e sempre se ne va col muso lungo, e il sospetto che io sia un bugiardo di professione. Il nome eccentrico lo tenta a fare cose eccentriche, giura che è un bisogno di coerenza. Quando viaggia lascia asciugamani nei bagni degli alberghi, è l'unico che invece di fregarseli regala i suoi, e talora nei supermercati la merce in offerta la evita come la peste e per comprarla aspetta che rincari. Un giorno che era ubriaco disse che mi invidiava, avrebbe voluto pure lui fare lo scrittore. Poi si corresse, ammise che non gli andava di ricamare sopra a ogni stupida questione, non è questa la vita. "Perché tu fai così, no?" mi chiese e io non trovai argomenti per contraddirlo. Poi disse che tra l'istinto e l'arte preferiva l'istinto, che passa via in fretta, se lo soddisfi, e sì, dopo ne arriva un altro ma non hai che da assecondare anche quello e trattenerlo al massimo come ricordo inerte. "Però con un nome come il mio, non fare l'artista è uno spreco" concluse. Per cui ogni tanto mi racconta che seppellisce centesimi nelle sponde dei letti, per lasciare una prova del suo soggiorno ai motel di frontiera, oppure sale sul palco di un teatro vuoto e inventa una piroetta, e recita venti minuti in bocca a nessuno. Succede a quel punto, allo snodo di quella confidenza, che gli ritorco contro la sua invidia: "Beato te" gli rivelo: "è fantastico essere un artista senza ambizioni" perché tra me e lui, alla fine dei conti, non so davvero chi sia il più fortunato.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post