Se credete che scrivere un racconto di Natale sia semplice, beh, devo deludervi: è l'impresa più difficile del mondo. Devi sempre inventarti qualcosa che superi quelle già esistenti perché altrimenti tutti sono pronti a dirti Questa storia l'hai copiata, oppure Sì non è male ma niente a che vedere con... e ci piazzano appresso un titolo a caso. Un sacco di gente è suscettibile sull'argomento Racconti di Natale, anche se non ha mai letto un cavolo e passa tutto il tempo a scrollare sui social. Il caso vuole però che quest'anno una buona storia di Natale io ce l'abbia, me l'ha raccontata anni fa un amico con la raccomandazione di renderla pubblica il primo Natale dopo la sua morte. Se n'è andato il 30 aprile scorso, cancro ai polmoni, e così oggi sto qui a soddisfare la sua volontà. Il protagonista è lui e la vicenda è questa: anni fa abitava in un quartiere diverso da quello dove è invecchiato, faceva la spesa il martedì e il sabato al discount sotto casa, era abitudinario, scapolo, e comprava sempre le solite tre o quattro sciocchezze. Verso dicembre apparve davanti alla porta del negozio una donna magra, sdentata, vestita con una tuta blu da benzinaio, implorante, che chiedeva a tutti di comprarle qualcosa. Non voleva dei soldi, chiedeva un vassoio di kiwi, una rete di arance e tre o quattro volte il mio amico ci aggiunse cioccolata e noci. Mi raccontò quanto quella donna lo impietosisse e che gli sembrava di conoscerla ma non aveva idea di dove l'avesse vista. Era sempre in crisi d'astinenza e non sembrava destinata a una vita lunga. La vigilia di Natale il mio amico le regalò un po' di frutta e poi aspettò che se ne andasse, girando là attorno. Quando lei si avviò, lui la seguì. La pedinò fino a un caseggiato in periferia, la vide entrare faticosamente in un portone e quando lo richiuse si avvicinò a leggere le targhette. Scorse tutti i nomi, non gli dicevano niente. Finché il penultimo in basso lo fulminò, tutto gli tornò alla memoria, spietatamente: erano stati nella stessa scuola, e per qualche mese, a diciassette anni, erano anche usciti insieme, era la ragazza più importante della sua vita, a sentir lui l'unica che l'aveva amato. Gli venne la tentazione di suonare il campanello: "Avrei potuto provare a trarla in salvo ma poi non lo feci, non feci niente" - mi confessò. "Anzi, me ne tornai indietro e non ricordo di aver provato mai prima d'allora una tristezza tanto feroce, e dopo cambiai giro di negozi, abitudini, casa e quartiere".
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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