Una veranda in primavera a Maycomb. Una villetta a schiera davanti al mare della California. Un attico a Manhattan con affaccio sulla quinta strada. Delle tre avventure una almeno me la gusterò, probabilmente dopo la fine dei giorni. E magari due, e magari tutte e tre, perché nei sogni, là dentro, non c'è confine. Se il paradiso fosse una dimensione da cercare invece che un destino imposto, se si potesse votare come si vota per i mentecatti che ci governano, sceglierei di passare l'eternità a spasso per il mondo, ma solo dove da vivo ho orientato crimini e desideri. Sulla veranda di quella città inventata, in un tramonto d'aprile, vedrei passare sulla strada che taglia in due la mia proprietà il calesse di Bob Ewell - siano maledetti tutti quelli della sua razza - e in tribunale potrei giurare che è stato lui, non l'uomo nero, a violentare la ragazza. Quella casa davanti all'oceano invece la aprirei alle feste e a tutti i venti: inviterei Dudley Moore prima che la malattia al cervello gli impedisca di esserci, Peter Blatty e i suoi demoni cornuti, e con loro le ragazze degli anni Settanta, animatrici delle combriccole di uomini sobri. A New York forse ci vivrei d'inverno, con la neve e le mani gelate, gli abeti in saldo sui marciapiedi e Bing Crosby che canta come se l'umanità fosse redenta, e a tutti quanti fosse stata tolta dall'alloggiamento delle batterie la furia che hanno, l'infelicità. Davvero, ci sono troppi posti in giro dove impalcherei una stagione feroce e dove da vivo non andrò tanto facilmente, che me ne faccio del giardino dell'eden? Il premio per non aver mai rubato, mai ammazzato nessuno, mai pronunciato falsa testimonianza e aver tradito solo per necessità io spero sia quello: uno stupore incredulo in case, spiagge, centri commerciali e deserti come quello di Paris, Texas dove la mia vita sarebbe finalmente un romanzo, non solamente una cosa scritta che faticosamente lo sembra.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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