Tra i ricordi dimenticati per infinite stagioni e poi riapparsi in barlume come luci di un temporale c'è la domenica d'inverno, quella dei miei undici anni, verso le cinque di pomeriggio. A quell'ora, con l'aria torbida della sera che si mangiava le case, con le facce rosse e i calzoni schizzati di fango, rincasavamo col pallone e gli skate saltando i gradini a tre a tre per via del Monte e incontravamo le donne che dopo aver rigovernato la cucina si riposavano sulla porta di casa, chiacchierando stridule colle vicine da un cantone all'altro. Tra noi c'era chi si fermava a mezza strada - sua madre lo aspettava perché le desse una mano per la cena - e chi tirava lungo, col sudore che gli si freddava addosso e alla notte avrebbe smaniato di febbre. Io calavo sempre inquieto perché non sapevo di che umore avrei trovato mio padre, se mi avrebbe sorriso, carezzato la testa e se avremmo guardato insieme i gol o se invece sarebbe rimasto tutto il tempo in disparte, torvo, sotto la luce della lampada a leggere non so cosa. Mi mancava sempre una pagina di geografia da studiare, non riuscivo a farmi entrare in testa i fiumi a delta e quelli a estuario, e una poesia da imparare a memoria, da recitare come un idiota l'indomani davanti alla classe sghignazzante. Però mia madre era felice e voleva le facessi sentire un disco di Demis Roussos, Gastone suonava il piano, Clara guardava il teatro in tv e c'era perciò sempre qualcuno a cui chiedere compagnia, non come adesso, che le stanze sono vuote e i suoni spenti. Non che ne faccia un dramma, la vita va così, prima è folta e poi solitaria, però ogni tanto mi viene da riderne, come per tutte le cose serie. Per cui non vi stupite se passando sotto casa mia mi sentite svalvolare: è tutta memoria che scorre davanti agli occhi.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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