Gli italiani non leggono i racconti brevi eppure quanto mi piace scriverli. Pare sia una repulsione tutta nostra: in America, Spagna, nei paesi del nord Europa, in Oriente, in Africa, vanno alla grande e allora è da un po' che medito di trasferirmi all'estero. Il guaio è che sono pigro, non conosco il catalano, il cinese e l'occitano e dunque sto, come da ragazzino a sette e mezzo, sperando che almeno una volta il banco sballi. Conosco editori che se ne lamentano - non del fatto che io voglia restare, ma dei racconti che non vendono. Loro li pubblicherebbero più che volentieri, se solo avessero un pubblico bastevole. Che poi non vi pare una contraddizione questa cosa? Tutte le statistiche - notoriamente poco attendibili in quanto teoriche, senza riscontri oggettivi, del tipo Se te dico che è così te devi da fidà - giurano che in questo nostro strano paese si legge poco. I racconti dovrebbero essere privilegiati, in tal caso. Il problema allora forse è un altro: è che in Italia si legge male, si legge senza valutare, si legge passivamente. Leggiamo quel che ci dicono di leggere e questo riflesso pavloviano abbassa la qualità della letteratura perché non ci poniamo più il problema del linguaggio, dello stile, della costruzione sintattica ma andiamo in libreria come al fast food e divoriamo libri hamburger che ci scassano il fegato, alzano la glicemia e spengono l'intelligenza. Qui già sento l'obiezione: ecco il lamento invidioso dello scrittore che vende poco. Io vendo poco? Sappiate che con i diritti d'autore del 2023 mi sono comprato un tostapane giallo dorato. Nuovo di pacca eh, mica di seconda mano: faccio certi toast da leccarsi i baffi. Il punto è un altro: è che mi piacerebbe che leggessimo ancor di meno - ammesso sia vero che leggiamo poco - ma leggessimo meglio, più densamente, e che quel che leggiamo ci restasse dentro e poi lievitasse come una torta di mele e ci rendesse migliori, più evoluti, tolleranti e gentili. Che poi sono gli stessi motivi per cui uno scrittore scrive: per farsi civilizzare dalle sue parole.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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