Adesso mangio da solo, mangio quando ho fame, senza orario, senza apparecchiare, evito solo di mangiare schifezze e qualche volta m'azzardo perfino a cucinare. Mangio guardando la partita, mangio leggendo, mangio in piedi, mangio e scrivo, mangio di fretta e ingoio aria, e poi digerisco male. Eppure un tempo non era così, un tempo il pranzo e la cena avevano delle regole precise, guai a violarle, era concesso non sedersi a tavola giusto se stavi per morire, per un'indigestione o una tonsillite feroce. Il pranzo della domenica, specialmente lui, era sacro. Venti volte l'anno, forse trenta, era un pranzo collettivo, da famiglia allargata, un raduno degli alpini senza l'inconveniente della grappa. Quando cominciava novembre e dopo che i morti erano tornati nel loro mondo, il pranzo della domenica serviva per pianificare il Natale. Ai vecchi della famiglia - vecchi: avevano sessant'anni nemmeno - piaceva far le cose per tempo: quante dosi di pampepato, quest'anno? quanti cappelletti? dite che mille bastano per tutte le feste? le sedie le avete fatte riparare? guarda che due o tre sono sfondate; dove lo volete fare il presepio? la legna quando la portano? alla tombola mancano due numeretti, tocca ricomprarla. La fecero scegliere a me, quella volta, e se ne pentirono perché piantai una grana per quella disegnata da Jacovitti, con i salami che spuntavano dal terreno, i cavalli parlanti e le battute vagamente derisorie per quel pensiero di sinistra che grazie al cielo ha sempre albergato a casa mia. Una non me la scorderò mai: Il riso abbonda sulla bocca di Mao-Tze-Tung, diceva in una vignetta un cinese piccolo e storto, e un mio cugino concluse acidamente che un umorista del genere non poteva che chiamarsi Benito. Insomma c'era da stare allegri, in ogni stanza c'era qualcuno che faceva qualcosa, le parole, i bisticci, le risate fragorose, i numeri estratti, l'odore delle pietanze cucinate s'aggrovigliavano teneramente e m'hanno fatto compagnia, in memoria, nelle stagioni trionfali e in quelle maligne. Tuttavia neanch'io quando adesso torno là, dove tutto è ormai inesorabilmente muto, riesco a credere che tutta quella vita sia accaduta davvero.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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