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Visualizzazione dei post da novembre, 2024

Hamburger books

Gli italiani non leggono i racconti brevi eppure quanto mi piace scriverli. Pare sia una repulsione tutta nostra: in America, Spagna, nei paesi del nord Europa, in Oriente, in Africa, vanno alla grande e allora è da un po' che medito di trasferirmi all'estero. Il guaio è che sono pigro, non conosco il catalano, il cinese e l'occitano e dunque sto, come da ragazzino a sette e mezzo, sperando che almeno una volta il banco sballi. Conosco editori che se ne lamentano - non del fatto che io voglia restare, ma dei racconti che non vendono. Loro li pubblicherebbero più che volentieri, se solo avessero un pubblico bastevole. Che poi non vi pare una contraddizione questa cosa? Tutte le statistiche - notoriamente poco attendibili in quanto teoriche, senza riscontri oggettivi, del tipo Se te dico che è così te devi da fidà - giurano che in questo nostro strano paese si legge poco. I racconti dovrebbero essere privilegiati, in tal caso. Il problema allora forse è un altro: è che in It...

L'età della pietra

Guardo come sei sfrontata, come nobiliti ancora quella curva, come da quel cantone ti fai beffa degli uomini e li osservi muta. Guarda come resti identica, ogni anno che vola. Ciao pietra, non avertene a male ma fai un po' rabbia. Ti passo davanti ogni giorno, e ogni giorno perdo un centinaio di capelli, e gli occhi perdono allegria, il viso si riga attorno agli occhi, le spalle si curvano d'un altro grado, le gambe stentano dove ieri andavano sicure e tu sei sempre uguale a quando ero ragazzo, a quando era ragazzo mio padre, a quando mio padre non era nato e mio nonno tornava dalla guerra dopo aver lasciato un figlio in Albania. Vorrei essere te, pietra, vorrei avere la tua struttura, il tuo cuore di sasso, l'anima imperturbabile, e aver sentito pronunciare parole come nostalgia, malinconia, rabbia, dolore, solitudine ma non saperne il senso, solo il suono. Ti hanno guardato tutti coloro che ho amato, coloro che ho detestato e a cui ho promesso battaglia, salvo poi trattar...

Svalvolare

Tra i ricordi dimenticati per infinite stagioni e poi riapparsi in barlume come luci di un temporale c'è la domenica d'inverno, quella dei miei undici anni, verso le cinque di pomeriggio. A quell'ora, con l'aria torbida della sera che si mangiava le case, con le facce rosse e i calzoni schizzati di fango, rincasavamo col pallone e gli skate saltando i gradini a tre a tre per via del Monte e incontravamo le donne che dopo aver rigovernato la cucina si riposavano sulla porta di casa, chiacchierando stridule colle vicine da un cantone all'altro. Tra noi c'era chi si fermava a mezza strada - sua madre lo aspettava perché le desse una mano per la cena - e chi tirava lungo, col sudore che gli si freddava addosso e alla notte avrebbe smaniato di febbre. Io calavo sempre inquieto perché non sapevo di che umore avrei trovato mio padre, se mi avrebbe sorriso, carezzato la testa e se avremmo guardato insieme i gol o se invece sarebbe rimasto tutto il tempo in disparte, tor...

Il pranzo della domenica

Adesso mangio da solo, mangio quando ho fame, senza orario, senza apparecchiare, evito solo di mangiare schifezze e qualche volta m'azzardo perfino a cucinare. Mangio guardando la partita, mangio leggendo, mangio in piedi, mangio e scrivo, mangio di fretta e ingoio aria, e poi digerisco male. Eppure un tempo non era così, un tempo il pranzo e la cena avevano delle regole precise, guai a violarle, era concesso non sedersi a tavola giusto se stavi per morire, per un'indigestione o una tonsillite feroce. Il pranzo della domenica, specialmente lui, era sacro. Venti volte l'anno, forse trenta, era un pranzo collettivo, da famiglia allargata, un raduno degli alpini senza l'inconveniente della grappa. Quando cominciava novembre e dopo che i morti erano tornati nel loro mondo, il pranzo della domenica serviva per pianificare il Natale. Ai vecchi della famiglia - vecchi: avevano sessant'anni nemmeno - piaceva far le cose per tempo: quante dosi di pampepato, quest'anno? q...