Ho vissuto tre anni e mezzo in una casa viva, dalle pareti molli, o almeno così a me sembrava quando mi addormentavo. Quel confine liquido tra sonno e veglia oggi non mi spaventa più, benché sogni ancora furiosamente: viaggi in Cile dai quali non so come tornare, donne che mi tradiscono con Frank Sinatra, giri della morte su un ottovolante che sta per precipitare. Nel viaggio breve dell'assopimento ora calcolo la distanza fra me e la felicità e ogni sera viene un risultato differente. Dipende da quel che ho fatto di giorno, se ho costruito qualcosa di ammirevole o sono stato con le mani in mano. Quando vivevo nella vecchia casa è capitato che mi svegliassi di colpo, alle tre, alle quattro del mattino, e intuissi ai piedi del letto una persona vestita come d'un drappo scuro, gli occhi fosforescenti. Erano frazioni di secondo, inganni della mente, con ogni probabilità, però lasciavano il segno e poi non sapevo spiegarmi perché il delirio si accanisse sempre con la stessa scena. Addormentarsi è ogni notte un azzardo, non sai se riuscirai a risalire il crinale del sonno, e tornare alla vita. Tuttavia è come andare a capo, e perciò ha i suoi aspetti positivi: puoi lasciare in fondo alla notte le idee storte e mantenere solo quelle che portano da qualche parte. D'inverno mi avvoltolo nelle coperte e sto lì ad aspettare che il freddo mi assedi, così da immaginarmi in mezzo a un bosco di neve, o in una capanna attorniata da lupi: che grande sollievo l'immaginazione, così inconsistente e così soccorrevole. D'estate butto tutto per aria - lenzuola, cuscini - e lascio che il ventilatore mi solletichi i piedi, per un rinfresco, come si dice facciano con le ali le fate porporine, nelle fiabe italiane. In tutte le stagioni, prima di dormire leggo almeno due capitoli, due pagine, due nuvolette: imparo anch'io, dai più bravi, come si fa a raccontare una cosa sciocca come questa senza venire a noia.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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