Esiste una zuppa inglese soltanto: quella di Gino Rosignoli. Il quale, incidentalmente, era mio nonno, parentela che mi ha permesso di mangiare quella bontà per tutta la giovinezza, senza ritegno e ben oltre le feste comandate. Osservavo rapito con che cura Gino la preparava: ho imparato dalla sua arte pasticcera ad amare i miei progetti, le cose che ho fatto, e ho tentato di applicare alle piccole imprese della vita la stessa dedizione che lui riservava a quel miracoloso dolce d'alchermes. Per prima cosa annunciava la sua intenzione a tutta la famiglia, che era allargata, pingue, non i quattro gatti di adesso. Diceva Venerdì faccio la zuppa inglese e domenica la mangiamo tutti insieme, quindi non prendete impegni. Non era un invito, era come l'ordine di un sergente al suo plotone. Dopo di che usciva a piedi - non ha mai preso la patente - a comprare gli ingredienti necessari. Solo roba di prima qualità, naturalmente: la cioccolata Zaini e il liquore di marca alla drogheria del duomo; le uova dal contadino sotto gli Scolopi, che allevava le galline a granturco e molliche di pane; i savoiardi e il caffè al generi alimentari di Fernando, in piazza, dove tutto costava di più ma tutto era di qualità superiore. Tornava a casa e sistemava la spesa sul tavolo per esser certo che non mancasse niente e che le quantità fossero sufficienti. Eravamo venti, talvolta venticinque se salivano anche i parenti dello scalo, e di quella prelibatezza ne occorrevano sei o sette zuppiere. Gino non usava le tortiere perché la zuppa si mangia a cucchiaiate, e il cucchiaio va affondato più che si può: è il gesto che fa il gusto - ripeteva. La fattura era elaborata, durava tutto il pomeriggio del venerdì e buona parte del mattino del sabato: la crema d'uovo era il passaggio più complicato, bastava un niente e si stracciava, e finiva nella pattumiera, con rammarico grosso perché a buttare via i nostri vecchi non c'erano abituati. Metà savoiardi andavano intinti nel liquore, l'altra metà nel caffè, e poi gli strati dovevano essere attentamente spalmati, perché non abbondasse o non mancasse nessun componente e tutto fosse proporzionato al resto. La cioccolata a tocchi andava squagliata a bagno maria e occorreva girarla di continuo perché non si attaccasse al tegame. Poi il pomeriggio del sabato le zuppiere riposavano in frigo, che per l'occasione si svuotava di formaggini e carne avanzata. La domenica, il trionfo. C'era sempre chi per gioco, rito familiare, diceva Gino, oggi ti è venuta meno bene: è poco farcita, oppure Che l'hai comprata bella e pronta, stavolta? In realtà sapevano tutti che era il dolce più straordinario che avessero mai mangiato e Gino l'unico in grado di tenere unita, prendendola per la gola, una famiglia così scombinata.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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