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Paradiso e Inferno

Mia figlia mi propone una sfida impossibile: che le riassuma in venti righe l'idea che Dante aveva dell'amore. Deve preparare l'esame di letteratura italiana per settembre, e mi chiede di offrirle una prospettiva diversa da quella di tutti i libri che ha consultato. Un bel pasticcio: che diavolo posso dirle che non abbiano già detto mille altri prima e meglio di me? Decido di partire dalla mia esperienza. Non per vanità ma perché conosco i miei guai d'amore più di quanto conosca qualsiasi poeta. E i miei amori sono stati quasi sempre dei saliscendi emotivi, un giorno in cielo e l'altro sottoterra. Per associazione di idee mi vengono in mente la Vita Nuova e il quinto canto dell'Inferno. Avete presente, no? Beatrice che tanto gentile e tanto onesta pare eccetera eccetera; e Paolo e Francesca, che sono scaraventati tra gli incontinenti per aver ceduto alla lussuria. Mi metto alla ricerca di un punto in comune che non sia scontato. Leggo e rileggo quei versi prodigiosi. Quelli della Vita Nuova biasimano qualunque appetito sessuale: l'amore è puro spirito, ascesi, contemplazione della bellezza che salva, elevazione verso Dio. I versi infernali sono una discesa non solo letterale verso gli istinti primitivi dell'uomo, l'accoppiamento come soddisfazione morale, quanto di più turpe - da un punto di vista ideologico - possa esistere. Sì, ok, poi Dante la ingentilisce, la faccenda, la rende commovente e tenera, la sublima fino a farla sembrare altro, ma altro non è: sempre di due che scopano per il gusto di farlo si tratta. E in più il tradimento avviene in famiglia: il tradito è il marito di lei e il fratello di lui. Conta poco poi che costui, Gian Ciotto Malatesta, sia un uomo spregevole. Fino a un certo punto, fino a che non diventa assassino, è lui il fesso della storia. Insomma non trovo nulla che non sia stato detto già un sacco di volte, ma a un certo punto mi cadono gli occhi sulla parola umiltà. Beatrice nella Vita Nuova è definita benignamente d'umiltà vestuta. Ha cioè l'atteggiamento, il portamento, di chi non se la tira neanche per sbaglio: è magnifica e non fa nulla per apparire tale. È qui che mi viene la curiosità di scoprire se nel canto di Paolo e Francesca si possa rintracciare lo stesso sentimento, creando così un ponte tra due opere concettualmente tanto diverse. No, non c'è, l'umiltà, ma c'è il suo contrario. Paolo e Francesca, fermi davanti a Dante, sono fieri del loro amore, sono in un certo senso presuntuosi. Rivendicano quello che hanno fatto, lo testimoniano: Francesca non vede l'ora di spiattellare a Dante tutta la storia, per sentirsi ammirata. Lo rifarebbero dunque quel peccato mortale, se potessero rinascere e ricominciare da capo. Dante insomma celebra per loro tramite lo splendore dell'amore furtivo, occasionale, giustifica l'attrazione come motore di vita, perfino come evoluzione dei sentimenti. Poi certo, li mette all'inferno, quei due, non potrebbe fare altrimenti, ma sotto sotto ci si riconosce perché con la sua donna dal cuore di pietra ha fatto lo stesso, e assolvendoli moralmente (lo fa dedicando loro il canto più commovente di tutta la Commedia) assolve se stesso. La strafottenza, a conti fatti, è allora una magnifica trovata, mio caro poeta: è lei la sorella ambiziosa dell'umiltà. Eccolo, il legame che cercavo. Non lo so se un esegeta ci ha mai pensato, magari sì, mi sarà sfuggito. Ma Beatrice che si mostra modesta senza che sia una posa, che quell'umiltà ce l'ha cucita (vestuta) addosso è il contrario della fierezza ostinata degli amanti, della loro sfacciatiaggine. E quando un sentimento incontra il suo contrario nascono belle idee, e i fili invisibili della letteratura e della vita vera si intrecciano che è un piacere


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