Ieri ho visto una ragazza cieca, a uno di quegli eventi di moda dove si mangia cibo per strada. Pioveva, avevano acceso le braci sotto ai tendoni, la gente faceva la fila con gli ombrelli, qualcuno si è dato per vinto, è andato via. Stava con un'amica - forse la sorella ma non si somigliavano - che l'ha guidata tra i tavoli finché non ne han trovato uno libero e si son messe a mangiare hamburger. A me ultimamente la carne non va e allora ho preso a guardarle. Così faccio, quando ho bisogno di una storia nuova, che mi ravvivi la fantasia come un mantice la fiamma sotto a quei manzi d'Argentina. Non sembrava che fosse in collera con dio; io al suo posto lo maledirei ogni giorno, e alla sera implorerei il suo perdono. Mangiava tranquilla, l'altra le porgeva ogni tanto il bicchiere di coca, ridevano perfino, raccontandosi certi amori impossibili che le rendevano felici, prive di desideri. L'amica sana sembrava condividere la stessa sorte: direi che si erano scelte, il che è una fortuna che capita a pochi. La sera ha spiovuto e ho camminato fino a porta Romana, dove il Comune ha tagliato alberi che stavano lì da che ero bambino. Ho letto un po' il libro che avevo appresso - l'ultimo di Eraldo Affinati - poi ha preso a dolermi il collo e ho girato la testa verso l'alto, in cerca di sollievo. Nella casa di fronte, a una finestra spalancata, un gatto stava placido, a bearsi dell'ultimo sole. Stava lì, sul confine tra le stanze e il vuoto, privo di vertigini, presuntuoso. Si è leccato il pelo, poi con sufficienza è saltato giù, dalla parte del baratro, ed è atterrato senza un graffio. Che bello che era. Che bella che è stata la scena, ragazza cieca, se avessi potuto vederla. Avrei pagato di tasca mia perché tu fossi lì, e avessi occhi per tanta bellezza. Non per le cascate del Niagara, le colazioni sull'erba o un film da cento Oscar. Solo per un gatto acrobata e la sua indifferenza alla morte.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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