C'è questa città dove ti ho incontrata dopo trent'anni che alla sera si tinge di rosa: è qui che ti ho aspettata disperando di vederti. Poi sei arrivata e ti ho invitata a cena, nell'appartamento da dove si vede il sole che s'infila nella tasca dell'orizzonte. Se posso permettermi stai meglio adesso, con le guance un po' più piene. Da questo terrazzo abbiamo spiato il serpente di auto che rincasava, mentre la pasta si finiva di cuocere. Ti ricordi che spettacolo che era la nostra gioventù? Ma ce ne accorgiamo solo in ritardo, è questo il guaio. Hai detto che ci contavi, di trovarmi ancora in discreta forma, perché gli uomini devono conservare una qual dignità, un decoro. Abbiamo riso come ridevamo nel novantaquattro, la notte che passammo a far l'amore con tutta l'incoscienza dell'età, senza nemmeno conoscerci. Quando tuo padre ci sorprese e disse che mi avrebbe sparato se mi fossi rifatto vivo mi venne in mente quella canzone di Ivan Graziani, imparai a farla con la chitarra e la suonai in riva al mare, e tu l'hai cantata, e quello è il ricordo più ostinato. Non siamo mai stati insieme, ora che ci penso. Tu eri di un altro, io non mi ricordo se ero di qualcuna, era un tempo confuso, so che volevo scrivere senza averne l'ostinazione necessaria. Ora che ce l'ho, la giovinezza è finita. Però ho scritto tanto, in questi anni, e ho scritto di te, a volte, e in un certo senso così facendo mi son mantenuto ragazzo. La notte che entra dalle finestre, oggi, in questo decimo piano di vetro, sa di alberi fioriti - qua sotto c'è un parco - e il buio è chiaro come la nostra allegria. Beviamo leggero, mi racconti di te e io ti sto a sentire. Poco ti dico delle mie stagioni dolorose e allora incrini la voce, confessi quello che già sapevo, che altri, maligni, mi hanno rivelato: che eri persa per un uomo da niente, e che hai sprecato del tempo a stare al suo gioco. Dopo, sei diventata diffidente, altera. A me non sembra, ma non ti contraddico. Poi ti alzi, mi dai un bacio da terza elementare e vai via: sono le due del mattino. Mi vien da pensare che se tutta la vita fosse così come questa notte, senza presagi, non ci sarebbe niente di male a sperarla infinita.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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