Questo mio amico che adesso si è fermato ha viaggiato per il mondo tutta la vita. Deserti, città che io ho attraversato solo con la fantasia, lui li ha visti, calpestati, e a ogni ritorno me li ha raccontati: non per vanto, ma pensando che tornassero utili al mio mestiere di narratore. È stato quattordici volte in Africa, quasi altrettante in Sudamerica, tre volte a New York - dove amò una donna creola che per poco non lo convinse a sposarla - e pure l'Europa l'ha esplorata palmo a palmo, per la mia invidia malcelata. Poi ha come deciso che s'era sbagliato a essere per tanto tempo così irrequieto, mi ha detto che è stato un fraintendimento tutta quella smania di alberghi, aeroplani e fusi orari. E che il suo grande sogno era quello di stare fermo in un punto, lavorare dentro un recinto stretto, non indagare il mondo, guardare gli uomini senza la pretesa di capirli. Così ho pensato che stesse mentendo: a se stesso prima che a me. Poi ho visto che gli occhi, i gesti, andavano dietro alle parole, le scortavano, e quando racconti frottole non succede: gli occhi, i gesti, creano dissonanze, al cospetto delle bugie. Ha scoperto che in un palazzo a un paio di isolati da casa sua cercavano un portiere, che quello vecchio era morto dopo una vita passata nel suo bugigattolo, felice e in disparte. Deve aver pensato che non era troppo tardi per invertire la rotta, per diventare - nel tempo che gli resta da vivere - una specie di suppellettile, un gancio dietro la porta, un animale cui nessuno chiederà mai conto delle esperienze fatte. "A dispetto di quello che puoi pensare - mi ha detto - non ho tratto nessun insegnamento da tutte le mie vacanze: ogni volta sono tornato uguale a come ero partito, lo stesso orizzonte limitato, le medesime idee stentate". Magari ora scoprirà se a non voler capire gli uomini - e ad essere invisibile, inattaccabile dal male che fanno - si riesce per paradosso a interpretarli almeno un po'.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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