Questo mio amico che adesso si è fermato ha viaggiato per il mondo tutta la vita. Deserti, città che io ho attraversato solo con la fantasia, lui li ha visti, calpestati, e a ogni ritorno me li ha raccontati: non per vanto, ma pensando che tornassero utili al mio mestiere di narratore. È stato quattordici volte in Africa, quasi altrettante in Sudamerica, tre volte a New York - dove amò una donna creola che per poco non lo convinse a sposarla - e pure l'Europa l'ha esplorata palmo a palmo, per la mia invidia malcelata. Poi ha come deciso che s'era sbagliato a essere per tanto tempo così irrequieto, mi ha detto che è stato un fraintendimento tutta quella smania di alberghi, aeroplani e fusi orari. E che il suo grande sogno era quello di stare fermo in un punto, lavorare dentro un recinto stretto, non indagare il mondo, guardare gli uomini senza la pretesa di capirli. Così ho pensato che stesse mentendo: a se stesso prima che a me. Poi ho visto che gli occhi, i gesti, andavano dietro alle parole, le scortavano, e quando racconti frottole non succede: gli occhi, i gesti, creano dissonanze, al cospetto delle bugie. Ha scoperto che in un palazzo a un paio di isolati da casa sua cercavano un portiere, che quello vecchio era morto dopo una vita passata nel suo bugigattolo, felice e in disparte. Deve aver pensato che non era troppo tardi per invertire la rotta, per diventare - nel tempo che gli resta da vivere - una specie di suppellettile, un gancio dietro la porta, un animale cui nessuno chiederà mai conto delle esperienze fatte. "A dispetto di quello che puoi pensare - mi ha detto - non ho tratto nessun insegnamento da tutte le mie vacanze: ogni volta sono tornato uguale a come ero partito, lo stesso orizzonte limitato, le medesime idee stentate". Magari ora scoprirà se a non voler capire gli uomini - e ad essere invisibile, inattaccabile dal male che fanno - si riesce per paradosso a interpretarli almeno un po'.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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