Una ragazza di trent'anni sta in ginocchio sotto la pioggia davanti alle vetrine della Ubik, in corso Tacito. Tiene in mano un barattolo di alluminio, lo sguardo basso. Qualcuno che passa ci mette dentro una moneta, poi va via di fretta, per non star troppo a ragionare con la propria coscienza. Un camionista ha fermato il suo bisonte in un'area di servizio, è notte, ci dorme dentro, non ha i soldi per l'albergo, sua moglie sta ottocento chilometri lontano. Forse piange, ma solo se nessuno lo vede. Un bambino in un istituto non ha padre né madre, o meglio ce li ha ma sono inaffidabili, al contrario di lui, ma nessuno lo vuole. Dicono che ogni tanto è come se vivesse in un mondo tutto suo, si chiude dentro a un bunker e non fa entrare nessuno. Il dolore è invisibile, certe volte; certe altre è tanto accecante che chiudiamo gli occhi e scompare. Da una vita sono così concentrato sul mio da non vedere più quello degli altri. Mi ha spaccato a metà e per ricompormi - come il visconte di quella novella - l'ho raccontato, ci sono sceso a patti, l'ho implorato, perdonato. Gli sono stato grato perché in qualche modo mi ha fatto scrittore, ed è la vita che preferisco tra tutte quelle possibili. Però poi il dolore degli altri è venuto a cercarmi, mi ha tolto la mano dagli occhi, mi ha sbendato, mi ha aperto le orecchie, forato il cuore con un punteruolo. Quel giorno - era un venerdì, mi ricordo - sono diventato comunità, io che ho vissuto da solo tutta la vita anche quand'ero in compagnia. Il male si addolcisce se lo condividi, è come il pane amaro che si spezza e ne mangiamo tutti: atei, bestemmiatori, seminaristi, donne libere, uomini che nel vocabolario hanno cento parole e uomini che ne hanno centomila. Condivisione è la parola più cara, il gesto che salva. Non basta che racconti il tuo dolore, ragazzo del '67: da oggi per dare un senso nuovo alla scrittura devi raccontare quello altrui. Spera che a tutti i tuoi colleghi - specie a quelli più bravi e famosi - venga la stessa irresistibile tentazione.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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