Una ragazza di trent'anni sta in ginocchio sotto la pioggia davanti alle vetrine della Ubik, in corso Tacito. Tiene in mano un barattolo di alluminio, lo sguardo basso. Qualcuno che passa ci mette dentro una moneta, poi va via di fretta, per non star troppo a ragionare con la propria coscienza. Un camionista ha fermato il suo bisonte in un'area di servizio, è notte, ci dorme dentro, non ha i soldi per l'albergo, sua moglie sta ottocento chilometri lontano. Forse piange, ma solo se nessuno lo vede. Un bambino in un istituto non ha padre né madre, o meglio ce li ha ma sono inaffidabili, al contrario di lui, ma nessuno lo vuole. Dicono che ogni tanto è come se vivesse in un mondo tutto suo, si chiude dentro a un bunker e non fa entrare nessuno. Il dolore è invisibile, certe volte; certe altre è tanto accecante che chiudiamo gli occhi e scompare. Da una vita sono così concentrato sul mio da non vedere più quello degli altri. Mi ha spaccato a metà e per ricompormi - come il visconte di quella novella - l'ho raccontato, ci sono sceso a patti, l'ho implorato, perdonato. Gli sono stato grato perché in qualche modo mi ha fatto scrittore, ed è la vita che preferisco tra tutte quelle possibili. Però poi il dolore degli altri è venuto a cercarmi, mi ha tolto la mano dagli occhi, mi ha sbendato, mi ha aperto le orecchie, forato il cuore con un punteruolo. Quel giorno - era un venerdì, mi ricordo - sono diventato comunità, io che ho vissuto da solo tutta la vita anche quand'ero in compagnia. Il male si addolcisce se lo condividi, è come il pane amaro che si spezza e ne mangiamo tutti: atei, bestemmiatori, seminaristi, donne libere, uomini che nel vocabolario hanno cento parole e uomini che ne hanno centomila. Condivisione è la parola più cara, il gesto che salva. Non basta che racconti il tuo dolore, ragazzo del '67: da oggi per dare un senso nuovo alla scrittura devi raccontare quello altrui. Spera che a tutti i tuoi colleghi - specie a quelli più bravi e famosi - venga la stessa irresistibile tentazione.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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