Il teatro greco di Taormina è uno di quei tre o quattro posti dove mi piacerebbe morire, naturalmente tra un paio di secoli. Il guaio è che non potrei perché ha la stupefacente capacità di farmi sentire immortale, felice come una Pasqua e mezzo ciucco anche se ho bevuto solo gazzosa. Esistono posti così, quello è un posto così. Lì ho immaginato che faccia farò quando scoprirò che tutto ha un senso e che tutte le ansie scoperchiate di notte erano soltanto un gioco di ruolo, una beffa ben architettata. Lì, sulla scalea lavica, in faccia al tramonto dello Ionio, non più tardi di dieci anni fa ho fatto il punto della situazione con due donne libere che assecondavano la mia impudicizia. Cercavamo tutti e tre una giustificazione a quella licenziosità, che un po' ci spaventava e un po' ci divertiva. E inseguivamo un'espiazione, ma con calma. Poi la sera, tra le viuzze ornate di passamanerie, di tovaglie di broccato poggiate sui davanzali, ecco la parola che ci salvò, pronunciata per ironia della sorte da una nobildonna di passaggio che scendeva coi suoi amanti alla spiaggia libera. Quella matrona pronunciò la parola fede, non so in quale contesto, certo non ce l'aveva con noi, eppure fu opportuna come poche altre fortuite parole. Capita che qualcuno ti passi accanto e dica una cosa che ti spalanca un mondo: è il caso che si diverte. Così noi tre l'afferrammo prima che cadesse a terra e rimbalzasse via, e ci accorgemmo che quella parola conteneva il senso del nostro viaggio, lo sublimava perfino. Perché noi tre avevamo creduto a tutto quel che ci eravamo raccontati, in un certo senso avevamo reciprocamente avuto fede. E quell'adulterio, o comunque lo vogliate chiamare, dove non si capiva chi ingannasse chi perché tutti a turno eravamo traditori e traditi, era stato un gioco trasparente, un'innocenza, e in quanto tale non punibile. Ci amavamo senza sotterfugi, ognuno sapeva degli altri e ognuno trovava la cosa perfettamente naturale. Rientrati nel mondo tuttavia, per ragioni che non ho mai compreso del tutto, quella perfezione si incrinò, quella bellezza si sfilacciò come una corda logora e tutti prendemmo altre strade, con una certa dose di rimpianto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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