Comincia a piovere, sono nel parcheggio della scuola, tra poco tocca a me. Ho un corso di scrittura coi ragazzi delle medie, ne ho fatti tanti e son felice di provare ogni volta una certa qual ansiosa emozione: la freddezza non giova ai narratori. Il dubbio è sempre lo stesso: decidere se raccomandare loro le opere più popolari o suggerire roba eccentrica, che non hanno mai sentito nominare. Le prime sono spesso più innocue, hanno una sola chiave di lettura, quella letterale, e non pretendono curiosità. La roba eccentrica costringe i ragazzi a diventare speleologi: la grotta è la loro testa, ci si inoltrano con la lampada sulla fronte e attraverso passaggi claustrofobici arrivano in un qualche ambiente inesplorato. Mi ci perdo, in questi ragionamenti, ed è allora che uno spiffero sonoro di vento entra dalla portiera. Suona proprio: come un flauto, non è un modo di dire. Immagino che un fantasma dispettoso, fatto dell'aria che scende dalle montagne, si sia intrufolato nell'abitacolo: assomiglia al canto di una ragazza che conoscevo. Così, a costo di far tardi in classe, mi metto a ricordarla, dolce che era. La prima cosa che amavo di lei era la sua fierezza. Era una tipa solitaria, ci stava bene dentro quella dimensione che tanti spaventa. Quando la cercavo, se non voleva farsi trovare non c'era verso. Altre volte le piaceva che le raccontassi i libri strani che avevo letto, perché un fremito le entrasse dentro, come adesso questo scherzo di vento nella mia macchina. Un giorno mi disse che voleva comprare un container per tenerci tutte le sue idee. Piccolo, precisò, poco più grande della cuccia di un cane. "Non mi va di mostrarle al mondo, non le capisce nessuno, hanno tutti gusti comuni, cauti, prevedibili". E così fece. L'ultima volta che passai a trovarla l'aveva piazzata in giardino, quella specie di rimessa per gli attrezzi. Dentro era vuota. Disse "Le idee sono invisibili. Però ci sono, ti giuro che ci sono". Partì una settimana dopo, per un posto con un altro fuso orario, dove a quanto ne so ancora resiste. Il container lo portò con sé e chissà se da allora ha avuto modo di aprirlo e mostrarne il contenuto al mondo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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