Comincia a piovere, sono nel parcheggio della scuola, tra poco tocca a me. Ho un corso di scrittura coi ragazzi delle medie, ne ho fatti tanti e son felice di provare ogni volta una certa qual ansiosa emozione: la freddezza non giova ai narratori. Il dubbio è sempre lo stesso: decidere se raccomandare loro le opere più popolari o suggerire roba eccentrica, che non hanno mai sentito nominare. Le prime sono spesso più innocue, hanno una sola chiave di lettura, quella letterale, e non pretendono curiosità. La roba eccentrica costringe i ragazzi a diventare speleologi: la grotta è la loro testa, ci si inoltrano con la lampada sulla fronte e attraverso passaggi claustrofobici arrivano in un qualche ambiente inesplorato. Mi ci perdo, in questi ragionamenti, ed è allora che uno spiffero sonoro di vento entra dalla portiera. Suona proprio: come un flauto, non è un modo di dire. Immagino che un fantasma dispettoso, fatto dell'aria che scende dalle montagne, si sia intrufolato nell'abitacolo: assomiglia al canto di una ragazza che conoscevo. Così, a costo di far tardi in classe, mi metto a ricordarla, dolce che era. La prima cosa che amavo di lei era la sua fierezza. Era una tipa solitaria, ci stava bene dentro quella dimensione che tanti spaventa. Quando la cercavo, se non voleva farsi trovare non c'era verso. Altre volte le piaceva che le raccontassi i libri strani che avevo letto, perché un fremito le entrasse dentro, come adesso questo scherzo di vento nella mia macchina. Un giorno mi disse che voleva comprare un container per tenerci tutte le sue idee. Piccolo, precisò, poco più grande della cuccia di un cane. "Non mi va di mostrarle al mondo, non le capisce nessuno, hanno tutti gusti comuni, cauti, prevedibili". E così fece. L'ultima volta che passai a trovarla l'aveva piazzata in giardino, quella specie di rimessa per gli attrezzi. Dentro era vuota. Disse "Le idee sono invisibili. Però ci sono, ti giuro che ci sono". Partì una settimana dopo, per un posto con un altro fuso orario, dove a quanto ne so ancora resiste. Il container lo portò con sé e chissà se da allora ha avuto modo di aprirlo e mostrarne il contenuto al mondo.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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