Quando tutto mi grava addosso come il mondo sulle spalle di Atlante, quando il diaframma mozza in due il respiro e la fame d'aria mi squinterna, prendo su le poche cose necessarie alla sopravvivenza e taglio la corda. L'istinto, che è più tenace della pigrizia, mi spinge sempre verso il mare, luogo di consolazioni, nostalgie e aurore spalancate. A ogni chilometro - passata Vitorchiano, passata Bomarzo, passata Tuscania - butto giù un po' di zavorra, come se invece che andare in macchina volassi in mongolfiera, e una volta arrivato ai confini della spiaggia mi ritrovo leggero come un aliante. Lì, tra la spuma dei pescespada al largo e l'insalata di alghe sulla sabbia, i pescatori che tirano le reti a riva, riesco a vedere più nitide le cose: la consistenza degli amori, le malinconie severe e la fortuna di poterne far racconto. Lì ricordo un'altra volta che la poesia è l'invenzione umana più necessaria - se con quel nome intendiamo la ribellione al destino, la decifrazione delle stelle e la melodia misteriosa delle parole quando rintoccano - e mi auguro di averne ancora a disposizione per un gran tempo. Così, trovato un ristorante dalla cui veranda si spalanchi un tratto di mare al crepuscolo e mentre aspetto che mi servano il piatto di gamberi che mi va da che son partito, considero il peso delle paure, delle prospettive che credevo terribili, e lo trovo inconsistente. Al mare lascio che le cose accadano, che chi mi vuole al telefono mi trovi ma con i miei tempi, che le vacanze spericolate di mia figlia non mi rubino il sonno e che i malanni peggiori non mi degnino di uno sguardo, per quella sera. Mi ripeto che tentare sempre di mandare le cose come si vuole non è carattere, è perversione. Ogni tanto bisogna lasciarle libere, le nostre vite, di vivere i giorni per quello che sono, senza prospettive, senza cercar presagi in ogni contrattempo. Alla fine però, sulla via del ritorno e nonostante le belle intenzioni, non so fare a meno di recuperare tutta la zavorra abbandonata al mattino, e riportarla a casa con me. Fino alla prossima fuga al mare, fino alla prossima salvezza provvisoria.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post