Quando tutto mi grava addosso come il mondo sulle spalle di Atlante, quando il diaframma mozza in due il respiro e la fame d'aria mi squinterna, prendo su le poche cose necessarie alla sopravvivenza e taglio la corda. L'istinto, che è più tenace della pigrizia, mi spinge sempre verso il mare, luogo di consolazioni, nostalgie e aurore spalancate. A ogni chilometro - passata Vitorchiano, passata Bomarzo, passata Tuscania - butto giù un po' di zavorra, come se invece che andare in macchina volassi in mongolfiera, e una volta arrivato ai confini della spiaggia mi ritrovo leggero come un aliante. Lì, tra la spuma dei pescespada al largo e l'insalata di alghe sulla sabbia, i pescatori che tirano le reti a riva, riesco a vedere più nitide le cose: la consistenza degli amori, le malinconie severe e la fortuna di poterne far racconto. Lì ricordo un'altra volta che la poesia è l'invenzione umana più necessaria - se con quel nome intendiamo la ribellione al destino, la decifrazione delle stelle e la melodia misteriosa delle parole quando rintoccano - e mi auguro di averne ancora a disposizione per un gran tempo. Così, trovato un ristorante dalla cui veranda si spalanchi un tratto di mare al crepuscolo e mentre aspetto che mi servano il piatto di gamberi che mi va da che son partito, considero il peso delle paure, delle prospettive che credevo terribili, e lo trovo inconsistente. Al mare lascio che le cose accadano, che chi mi vuole al telefono mi trovi ma con i miei tempi, che le vacanze spericolate di mia figlia non mi rubino il sonno e che i malanni peggiori non mi degnino di uno sguardo, per quella sera. Mi ripeto che tentare sempre di mandare le cose come si vuole non è carattere, è perversione. Ogni tanto bisogna lasciarle libere, le nostre vite, di vivere i giorni per quello che sono, senza prospettive, senza cercar presagi in ogni contrattempo. Alla fine però, sulla via del ritorno e nonostante le belle intenzioni, non so fare a meno di recuperare tutta la zavorra abbandonata al mattino, e riportarla a casa con me. Fino alla prossima fuga al mare, fino alla prossima salvezza provvisoria.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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