Erri De Luca scrive che a dodici anni fu gonfiato di botte da tre ragazzini più grandi di lui e che questa disavventura anziché umiliarlo lo inorgoglì. Dice che non aspettava altro che qualcuno rompesse il guscio del bambino che era per farne uscire l'adolescente, e che da quel giorno fu grato ai guappi per quella crepa sanguinante, e per averlo fatto evolvere. Lo stesso vado cercando io. Non che mi riempiano di cazzotti veri ma che in senso figurato una donna, un amico, un gatto quando mi fermo per strada ad accarezzarlo, frantumi le abitudini che ho, le sciocche certezze costruite con ostinazione, e faccia nascere un altro Francesco. In che modo? Beh, per esempio mostrandomi una prospettiva di vita che non ho ancora preso in considerazione, provocandomi una tenerezza nuova, suggerendomi abitudini differenti da quelle che assecondo e che - ormai lo so - non hanno il potere di allegrare più di tanto le stagioni. La mattina dopo quella epifania, probabilmente avrei già modificato alcune passioni. Sarei meno tentato dai romanzi e più dalla chimica, mi piacerebbe aggiustare le automobili, ungendomi di olio tra spinterogeni e turbine, convincerei certi miei amici scioperati ad andare a un rave party e loro mi asseconderebbero di buon grado, perché non si contraddice uno che è appena diventato matto. La mutazione dovrei però mostrarla un po' alla volta, perché tutti la giudichino naturale col tempo che ci vuole. E così, in capo a pochi mesi, sarei uno che guarda tanta tv, a tutte le ore del giorno, che adora il jazz rammaricandosi di come un tempo invece lo trovava perfino fastidioso, che rinnega la canzone d'autore e i western in bianco e nero e va matto per le apericene. Alla fine del percorso, davanti a una bistecca al sangue, arriverei a pensare alla mia vita precedente come a un sortilegio dal quale fortunosamente son guarito, e allo scampo da tutti quegli sciocchi passatempo con cui ho appesantito la mia anima. Laggiù, sulla linea di un altro anno che finisce, non mi verrebbe da pensare che sono proprio quelli che mi han tenuto in vita per così tanto tempo - perché il loro scopo non era l'allegria ma la consolazione - e che per questo, da quel momento in poi, la mia sopravvivenza è in pericolo.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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