Cento, centocinquanta, duecento. Perché dovevano bastare fino a primavera, perché se a Pasqua qualcuno ne voleva un pezzetto, doveva trovarlo in dispensa, avvolto nella carta oliata. Serviva a unire la nascita alla resurrezione, certo, però non era solo un discorso religioso, erano una festa - sobria, composta e lunghissima - e una speranza. Che nutrivano specialmente i vecchi, in silenzio, brontolando giusto sui ritardi dei nipoti al cenone. Noi l'avremmo capita dopo, io l'ho capita da poco: la speranza che quella compagnia non si sciogliesse mai, non si stancasse di mangiare assieme, di guardare l'albero scintillare, che nessuno si ammalasse, che nessuno invecchiasse. Duecentocinquanta, trecento, mille, ne avrebbero preparati, allora, se fosse servito a fermare il tempo, a far ardere per sempre lo stesso ceppo nel camino, a non far ammuffire i chicchi di granturco per la tombola. I viaggi che Gino e Gastone facevano con la spianatora sulle spalle da via della Pigna fino al forno di Lidia erano perciò un tentativo d'indulgenza plenaria camuffato da impazienza di golosi - perché già di questi tempi, alla fine di ottobre, si compiva, - una captatio benevolentiae spacciata per crapuloneria. Quei dolci a forma di cacatina di vacca, gran bitorzoli mai superati in bontà da nessun dolce al mondo, erano le ostie laiche della nostra comunione: mangiandone anche solo una nocchia, un pinolo, raccogliendo un'uvetta dalla tovaglia, una mandorla aggrumata di cioccolato Zaini, una scorzetta di cedro candita, si diventava a pieno titolo fedeli e praticanti, si ingoiava il vero corpo di Cristo, perché ogni famiglia ha la sua eucarestia. Va da sé che adesso invece siamo tutti sacrileghi: chi più chi meno, tutti detestiamo la festa e non ci sono più i vecchi a imporne il culto dal primo giorno all'ultimo. Chi ha nostalgia di quei Natali di spaventevole bellezza oggi tenta di riesumarli, ma pochi gli danno retta, e anche se capita è una liturgia frettolosa: un piatto di cappelletti in brodo, mezzo giro di mercante in fiera, regali fatti per forza e poi ognuno se ne torna a casa, triste e immemore. Di quel tempo di riti squisitamente cristiani, non abbiamo salvato niente.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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