E davvero, come in una canzone di Baglioni, uscivamo di scuola urlando per il troppo fiato trattenuto e talora, dopo essercele promesse, ce le davamo di santa ragione: per un suggerimento sbagliato, per una donna acerba o una partita di pallone. Erano gli anni dei fogli bianchi: uno era la nostra testa, uno l'avvenire, un altro l'amore, un altro ancora i sogni, e pensavamo che li avremmo scritti col tempo, quei fogli, colmati di gesti di cui esser fieri. "E invece" - mi ha detto Giuliano appena ieri, a cena - "a guardarli adesso non troviamo che scarabocchi". Stavo per rispondergli Parla per te ma l'affetto ha avuto la meglio, ho fatto finta di esser d'accordo, se ne è compiaciuto. Per quel desiderio provocato, oggi ho preso per le stesse strade di quarant'anni fa - via Alceo Massarucci, via Cesare Battisti, piazza Clai - con l'idea di mangiare in uno dei posti dell'adolescenza ma la pizzeria del Secolo ha chiuso dallo stesso tempo che ha nel nome e al suo posto regna Foot Locker, e dentro una musica terribile sparata dal bluetooth. Ho deviato così per il lungonera, sugli argini ci andavamo a far l'amore, in piedi, tra le erbe gelate, e poi tornavamo in centro, a sfilare al corso il corteo del sabato, rossi in viso, impiastricciati: nella vetrina di Jalenti c'erano dischi sempre nuovi, nella drogheria di largo Villa Glori cioccolata scaduta dal settantasei, sulle scale del Classico gli spacciatori d'hashish da cui mia madre mi scongiurava di tenermi alla larga. Una volta uno di noi fu convocato in questura per uno spinello: una lavata di capo e a casa; un'altra portammo in classe un gatto durante l'ora di filosofia, e qualcuno saltò il cancello per andare a comprargli il latte. Reati più gravi non ne ricordo, forse ne commettemmo ma non ne ho memoria, forse li commise Ottavio, o li commise Giulietta, ma non ero presente e non me li raccontarono. Che cosa è rimasto di tutti quei tumulti? Niente. E delle preghiere della notte? Niente. E della speranza di vite piene? Niente. Ciononostante, io sono felice quanto può esserlo un uomo di questo pianeta, con gli acciacchi, gli squarci, i pasticci e tutte le allitterazioni del dolore che la vita mi ha riservato. E allora, la felicità che cercavamo forse l'abbiam trovata - è questa incompletezza molesta, questa memoria malandrina, e per quanto mi riguarda questa fierezza di accroccatore di parole - e non ce ne siamo ancora resi conto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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