Amico mio, lo so che non hai ammazzato nessuno e che non faresti del male neanche a una mosca, ma le cose stanno così. Mi telefoni implorante, mi lusinghi chiamandomi scrittore, oggi non ce la fai a stare da solo: vediamoci a un caffè, allora, purché abbia l'aria condizionata. Il tempo di ordinare e prendi a raccontare, a strappi, furente, tu per solito tanto riservato - uomo strano ti chiamava tua moglie, e adesso invece perdi le parole come fossero dentro una busta sfondata. Non ho ammazzato nessuno, non ho mai alzato le mani sopra a nessuno, ripeti: perché mi tocca tutto questo strazio? Ti sto a sentire ma per davvero, non come con altri, quando faccio finta, annuisco, recito a soggetto ma vorrei che la smettessero. Appena capisco tutta l'enormità della questione, ricordo che non esistono parole a consolazione, è tutto fuori portata, le difese dell'alfabeto sono limitate. Ti mostro lo stesso una reazione, d'istinto immagino, per l'amore che ti porto, per disperazione, che è una circostanza che scioglie le lingue più legate. Non dipende da come sei o dai disastri che hai combinato - ecco, ti imbastisco i fatti come un sarto che provi a confezionare il dolore, - non sono avvenimenti collegati. Se esistono due cose che proprio non si pigliano, non si parlano nemmeno, sono le nostre colpe e i nostri patimenti. Sei tu adesso che azzardi un sorriso, come volessi ringraziarmi del nulla che ho detto. A tuo figlio, che ha vent'anni, han trovato una roba sospetta, gli han fatto la biopsia ma è festa, prima di una settimana non se ne parla, di sapere i risultati. Ti han detto che potrebbe essere qualcosa di serio ma non si sbilanciano. Lo so, la crudeltà dei medici, che ora sono a passare il ferragosto al tennis club e tu stai qui a morire, e hai davanti una settimana d'inferno. Però amico mio, vedi: quando una risposta non c'è, è inutile cercarla. Magari un giorno si troverà: sarà quando abiteremo sulla luna e mangeremo a volontà senza ingrassare. Fino ad allora il nostro destino è morire ogni giorno, e rinascere per sfinimento, e morire ancora, fino al giorno in cui la smetteremo per sempre con quel gioco perverso.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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