Amico mio, lo so che non hai ammazzato nessuno e che non faresti del male neanche a una mosca, ma le cose stanno così. Mi telefoni implorante, mi lusinghi chiamandomi scrittore, oggi non ce la fai a stare da solo: vediamoci a un caffè, allora, purché abbia l'aria condizionata. Il tempo di ordinare e prendi a raccontare, a strappi, furente, tu per solito tanto riservato - uomo strano ti chiamava tua moglie, e adesso invece perdi le parole come fossero dentro una busta sfondata. Non ho ammazzato nessuno, non ho mai alzato le mani sopra a nessuno, ripeti: perché mi tocca tutto questo strazio? Ti sto a sentire ma per davvero, non come con altri, quando faccio finta, annuisco, recito a soggetto ma vorrei che la smettessero. Appena capisco tutta l'enormità della questione, ricordo che non esistono parole a consolazione, è tutto fuori portata, le difese dell'alfabeto sono limitate. Ti mostro lo stesso una reazione, d'istinto immagino, per l'amore che ti porto, per disperazione, che è una circostanza che scioglie le lingue più legate. Non dipende da come sei o dai disastri che hai combinato - ecco, ti imbastisco i fatti come un sarto che provi a confezionare il dolore, - non sono avvenimenti collegati. Se esistono due cose che proprio non si pigliano, non si parlano nemmeno, sono le nostre colpe e i nostri patimenti. Sei tu adesso che azzardi un sorriso, come volessi ringraziarmi del nulla che ho detto. A tuo figlio, che ha vent'anni, han trovato una roba sospetta, gli han fatto la biopsia ma è festa, prima di una settimana non se ne parla, di sapere i risultati. Ti han detto che potrebbe essere qualcosa di serio ma non si sbilanciano. Lo so, la crudeltà dei medici, che ora sono a passare il ferragosto al tennis club e tu stai qui a morire, e hai davanti una settimana d'inferno. Però amico mio, vedi: quando una risposta non c'è, è inutile cercarla. Magari un giorno si troverà: sarà quando abiteremo sulla luna e mangeremo a volontà senza ingrassare. Fino ad allora il nostro destino è morire ogni giorno, e rinascere per sfinimento, e morire ancora, fino al giorno in cui la smetteremo per sempre con quel gioco perverso.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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