I derelitti che incontro
aumentano ogni mattina di più. Ogni mattina, dopo aver parcheggiato con cura e
mentre lascio finire l’ultima canzone, e ficco nello zaino quella sciocchezza
di libri e fantasia che mi serve per la diretta, ne incrocio di nuovi, e a
tutti leggo in faccia l’incredulità. Una volta è una donna che cammina a
scatti, ha una scarpa ciancicata e l’altro piede è scalzo, sembra aver fretta,
si guarda attorno diffidente, come una lupa capitata in città. Una volta è una
ragazza con una birra in mano, sono le sette del mattino e lei chiede un po’ di
moneta a tutti quelli che incontra. Una volta è un vecchio africano che sta
seduto su una panchina davanti al portone della radio, indossa pantaloni di
velluto anche d’estate, ha la barba a chiazze, non elemosina nulla, non
implora: soltanto, fissa in faccia tutti quelli che passano. Io invece ho una casa di proprietà, una
macchina che ha fatto meno di duecentomila chilometri, qualche soldo per le
vacanze e il cinema, vestiti che butto quando sono stufo, il wi-fi dappertutto e
l’abbonamento a Dazn, per guardare la mia squadra che gioca a pallone. Eppure
certe sere mi vengono in mente soltanto cose tristi, come a Concato in quella
mirabile canzone – mirabile dico per la grazia con cui svela le malinconie
immotivate degli uomini – e vorrei dire al mondo che uno più sfortunato di me
non esiste. Quando la bestia arriva, tre o quattro volte in un anno, non di
più, non faccio niente. Lascio che prenda possesso di me, passo la notte in
dormiveglia, e al mattino, quando incontro i disperati di turno me ne vergogno
e lei scappa, perché a combatterla si rafforza ma il disonore non lo regge. A
quel punto mi viene in mente che dovremmo fare qualcosa per accorciare le
distanze. Noi lamentosi, noi scontenti. Dovremmo piantarla di essere così,
tanto per cominciare. C’è un momento in cui abbiamo smesso di essere soddisfatti
della nostra vita. Può darsi ci sia anche un momento in cui possiamo cambiare
idea, e ricominciare a trovarla generosa. A pensare che se non è proprio la
vita che sognavamo da ragazzi, ci somiglia. E così facendo, trovare il coraggio
di riscattare la sorte agra di tutti i figli illegittimi del mondo, che alla
fine è l’unica cosa che conta.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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