Facciamo così, facciamo che vi vengo incontro perché temo che abbiate sbagliato strada. Facciamo che esco fuori dal cancello e mi piazzo in mezzo all'incrocio, almeno mi vedete e non andate girando fino a stasera come fantasmi matti. Oggi sono tornato quassù, dove stemmo tutti assieme un milione di volte, chiassosi e più giovani di quanto la morte avrebbe reso alcuni di noi perché quando si muore si è vecchi più che in qualsiasi epoca della vita. Ricordate Pietro che ogni tanto mi umiliava? Spero di sì, siete saliti per questo, per testimoniare. Ricordo che dopo una delle sue esibizioni mi chiese scusa ma non in pubblico, cioè sullo stesso palco dove mi aveva strapazzato, ma a quattr'occhi. Meglio di niente, pensai all'epoca. Dei libri che ho letto - non li avessi mai letti! - ho imparato che tutto è sangue, guerra e competizione. Così con mio padre: è stato tutto sangue, guerra e competizione. Perciò adesso quella ostilità va redenta, e scriverne è il solo modo che conosco. Ho il sospetto che mi fosse ostile per non saper essere altro, per istinto, per aver ascoltato troppe poche canzoni. E che fosse moralista perché convinto che aprirsi a tutti i linguaggi del mondo, leggerli e saperli interpretare, era un'eresia, un abominio di cui qualcuno un giorno gli avrebbe chiesto ragione. Le mie canzoni erano impegnative, gli suggerivano un altro modo di vivere, e i miei libri peccaminosi, per quella incomprensibile pudicizia che aveva di non voler urtare la suscettibilità di dio. Invece dio va provocato ogni volta che è necessario, va invocato, nominato invano, tentato d'umanità. Ci tiene un mondo, lui, a un certo tipo di relazioni coi mortali. Io l'ho fatto un sacco di volte e un giorno ho trovato conforto ai miei gesti nel romanzo di uno scrittore vero. Ah, gli scrittori veri, - mi confidò una sera un amico libraio - che bestie rare, e che divoratori del passato. Non come quelle scrittrici dalle fiche asciutte che han letto solo storielle svenevoli e han legioni di seguaci analfabeti per cui inorgoglirsi. Quando mio padre mi sorprese a celebrarlo sottolineando le righe - quel formidabile narratore greco che si chiamava Nikos Katzantzakis - intuì che era un pericolo mortale e pur senza saperlo definire a quel modò si stranì perché disobbedendo rischiavo di venir su tutto storto. Erano gli anni in cui guardare in tv Aggiungi un posto a tavola era proibito, perché coglionava dio. E quando a uno di quelli che aveva scritto Il papocchio venne un tumore al cervello, Pietro disse che non se la sentiva di escluderla, la vendetta divina. Perciò. Perciò, per tutta questa insopportabile memoria da cui sono incredibilmente uscito sano di mente, curioso e incendiario, vorrei che ritrovaste una volta per tutte la strada per questa collina e foste testimoni oculari della mia salvezza - che ormai anche mio padre avrà benedetto. Quella che per un uomo come me è l'unica possibile, e che in tutta modestia è il mio trofeo preferito.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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