Da un po' di tempo la mattina ho preso l'abitudine di parcheggiare vicino allo stadio. Da lì, per arrivare a piedi al lavoro mi ci vuole un quarto d'ora buono, che sommato al quarto d'ora per tornare indietro fa la mezz'ora di moto giornaliero che i medici raccomandano ai giovanotti attempati come me. La seccatura è che devo attraversare la strada in più punti e, pur facendolo scrupolosamente sulle strisce pedonali, ho già rischiato due o tre volte di essere travolto da chi guida in città come sull'autostrada del sole. Il vantaggio, oltre al movimento, è che guardo la città medesima da altre prospettive, scopro scorci inediti e sfilo nostalgico davanti al liceo che da ragazzo ho abitato irrequieto. Lo sono ancora - irrequieto, non ragazzo - ma adesso ho il buon senso di accorgermene e così posso scenderci a patti, con quella smania di far cento cose tutte assieme. Molto è cambiato, là attorno, parecchie vie si sono insuperbite come la gente che ci abita, forse ha ragione chi dice che il popolo non esiste più: una falegnameria l'han trasformata in un locale da movida, le finestre hanno le sbarre anche ai piani alti, i solarium han preso il posto degli oratori. Sbalordisce, guardare tutte queste mutazioni: devono essere accadute mentre ero distratto, mentre amavo, mentre avevo ancora una famiglia d'origine e una costruita da me sulle quali far affidamento. Eppure dev'esserci qualcuno in giro che mi ricambi gli occhi. Ecco che arriva un ragazzo in bicicletta, uno di quelli malpagati che consegnano h24 cose a domicilio. Sono sulle strisce, ho la precedenza, lui frena, mi fermo anch'io. Gli sorrido, gli faccio cenno di passare, lui dà una pedalata, restituisce il sorriso e per giunta mi ringrazia con un gesto più convinto del mio. Magari non serve a niente, tranne che a giustificare la poetica del narratore. Ma se quella sconveniente gentilezza dilagasse nelle piazze, nelle città, e diventasse epidemia, sarebbe un contagio contro il quale nessuno, in mille anni, dovrebbe mai trovare un qualche tipo di vaccino.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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