C'è una foto del 1838 - una delle prime della storia - che ritrae un uomo intento a farsi pulire le scarpe in un boulevard parigino. La strada appare deserta, sembra che in giro ci siano soltanto lui e il lustrascarpe: nei paraggi solo qualche albero, le tende abbassate sui negozi, i comignoli, le case popolari, e alle case finestre misere, dietro le quali si spera non abiti più nessuno. Nulla del formicaio della via - i ragazzi all'uscita della scuola, le donne di servizio intente a farsi corteggiare dai libertini, i netturbini, i tramvieri, i poliziotti - è rimasto impresso sulla lastra: si muoveva troppo veloce per essere fermato in dieci minuti di posa. Due secoli fa per scattare una foto ci voleva il tempo che ci voleva e quella immagine racconta la pazienza che avevano i nostri bisnonni. Che dopo lo scatto si chiudevano dentro la camera oscura e attaccavano con le mollette i negativi a un filo, sperando che quel che avrebbero visto sarebbe stato quello per cui avevano speso tutta l'arte a disposizione. Anche noi, mi sa, abbiamo una camera oscura dentro la memoria, e quando sviluppiamo le foto qualcuno viene tagliato via, e avremmo giurato che c'era. Per esempio un pomeriggio portai mia figlia che aveva tre anni a vedere Cars. Nella memoria quelle ore sono la tenerezza perfetta. Lei si addormentò all'inizio del secondo tempo, dopo aver giurato che le piaceva un mondo, quel film. Vidi la fine con la sua testolina posata sulla mia spalla: respirava con la bocca aperta, un poco raffreddata, come fanno i bambini. Quando si riaccesero le luci la portai in braccio fino a casa, con lei che russava il russìo dolce degli innocenti, e per strada ero orgoglioso, rallentavo perché tutti ci guardassero e ammirassero l'incanto. Ho una foto nitida di quella sera: una ricordanza riposta e mai più guardata e mai superata da altre in magnificenza. Oggi l'ho recuperata nuotando al contrario negli anni fino ad averne trentuno ma lei dalla foto è sparita, l'immagine è uguale al boulevard parigino: spoglia di chiunque fosse in movimento. Mia figlia è cresciuta, ha una vita sua, una casa diversa, un amore possente. Si è mossa mentre io son rimasto al palo, è uscita dalla foto. Adesso mi chiama Fra, ci sentiamo due volte al giorno, ci vediamo ogni volta che si può. Pare sia il destino dei padri: per alcuni è intollerabile, causa di depressione. Io lo trovo fantastico: è il segno che mostrandole la libertà ho fatto un buon lavoro.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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