Quando sono in viaggio - per lavoro e divertimento, perché le due cose coincidono - capita che vada a mangiare in certe trattorie che hanno i tavoli incastrati in una nicchia del muro, davanti a una finestra. Mi piace tenerle a mente, ricordarmi come ci si arriva, e se prenoto specifico che vorrei proprio quel tavolo lì, dove cade una luce allegra e da dove posso guardare la strada, e la gente che passa. L'ultima volta è stato a Foligno, un posto grazioso del centro storico, colle caricature di attori morti alle pareti e i camerieri dalla cortesia non esibita. Brando e la Monroe, in disegni colorati, dimentichi d'esser passati a miglior vita, m'hanno guardato mangiare con calma un antipasto di stracciatella con pomodorini e pistacchio e un primo di cappellotti al brodetto di rape con scaglie di mandorle e tartufo. Al ragazzo pakistano che mi ha consigliato il vino ho fatto notare che non lo volevo freddo di frigo, ma lui ha fatto di testa sua e me lo ha servito ghiacciato. Tenendo il bicchiere in mano per scaldarlo un po' mi sono guardato intorno: la sala era piena, nonostante fossero quasi le tre. Famiglie appena nate, coi figli piccoli, sembravano felici, ignare delle prove terribili che le attendono. Un uomo canuto ascoltava triste le giustificazioni di sua moglie, per una qualche colpa evidentemente non così veniale. Una donna che somigliava a mia madre mangiava un pasticcio di coniglio, e alla fine ha ordinato una bottiglia di cognac. Li ho guardati tutti, uno a uno, quegli sconosciuti che il caso aveva voluto far pranzare con me. Senza farmi accorgere, ma con pudica insistenza, perché m'ero stancato di spiar quelli di fuori. Li ho immaginati nelle loro case, alle prese con le bugie, i sotterfugi cui tutti ricorriamo per mandar liscia la vita. Li ho pensati preda di un sollievo passeggero, di un colpo di vento, dentro questa vita arrampicata, un soprappensiero che li colga stupiti, e grati. E alla fine mi son convinto che le loro paure sono le stesse che ho io, e mentre pagavo il conto m'è salito un desiderio: che non smettiamo mai, tutti quanti siamo, di pensarci all'avventura sulla stessa barca.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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