"Chicchio, c'è il sole", disse Gastone una mattina di marzo limpida e oscena. Chicchio ero io e avevo due padri: uno taciturno e scuro, uno più vecchio e leggero, responsabile dei miei talenti, della mia curiosità. Pietro viveva dentro certi confini angusti e pur non amandoli la tentazione a cambiare era meno ostinata dell'abitudine: le sue lune credo derivassero da questa impotenza. Gastone al contrario mi mostrò per tutta la fanciullezza gli strumenti dell'arte, e quando io da grande li adottai non mi accorsi che usarli m'avrebbe complicato la realtà, rendendola troppo attraente per il tempo stretto che un uomo ha a disposizione. E insomma quella mattina, che il cielo s'era spalancato d'azzurro dopo una settimana di temporali, Gastone promise che m'avrebbe fatto usare la sua telecamera, a patto che la legassi al polso e seguissi con scrupolo tutte le sue indicazioni. L'istinto ci condusse all'acropoli: da lì nelle giornate limpide lo sguardo arriva fino alla piana di fabbriche e campi, case coloniche e officine di carrozzieri, e ancora dopo tocca la periferia della città non mia, tutta galleggiante nella bruma. Decappottammo la Dyane e, afferrata la telecamera con tutta la forza, salii in piedi sul sedile, con le braccia e la testa di fuori, mentre Gastone affrontava pigramente i tornanti in discesa. Fu la prima volta che guardai il mondo col desiderio di raccontarlo, e non sapevo che sarebbe stato come in tribunale: una condanna a vita, perché dopo quella mattina non c'è più stato sguardo senza narrazione. Pare sia il destino dei creativi, gente strana che qualunque cosa faccia - cuocere un uovo, andare al mare la domenica - sta male se non può anche ricamarci su, e romanzarla secondo estro e necessità. Ripresi cortili e vitigni storti, quel giorno, muri di cinta e gente a spasso, e venne un filmino mosso che pure divertì Gastone, dopo che l'ebbe montato e quando lo fece girare a imposte chiuse nel proiettore. Alla fine mi disse "Magari lavorerai nel cinema". E invece no: son diventato un piccolo scrittore. Ma la poetica della tenerezza è la stessa che mi ha trasmesso lui.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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