Un'amica di Bert Cuper ha comprato un casale fatiscente nella campagna senese e dopo averlo ristrutturato c'è andata a vivere con sei cani e la sua compagna, che ha la faccia di Carlo Marx tatuata sulla pancia. Bert Cuper è un americano che conobbi nel 2011 a Siracusa, ogni tanto mi scrive e l'ultima volta mi ha raccontato l'avventura, convinto a ragione che me ne importasse, tanto che alla fine mi ha chiesto perché non faccio come lei, come la sua amica eccentrica. "Sono tentato, sono stato tentato talora, davvero, di andare via da tutto" - gli ho risposto. Però non l'ho mai fatto e mai lo farò, e questo non gliel'ho detto perché vorrei che conservasse di me una certa qual stima. Credo che cambierei epoca, più che città, se potessi: si può pesare ogni epoca guardando coloro che sono famosi in quel tempo, e io in questo che abbiamo vedo soprattutto macerie. Vedo il nulla che impera, come fossimo finiti in un buco nero, e gli artisti veri che annaspano, e si radunano in catacombe con i discepoli superstiti. Non mi ricordo un tempo negli ultimi cento anni in cui la musica sia stata così ripugnante, romanzieri tanto inutili da essere fastidiosi, legioni di analfabeti che fanno a gara a chi legge più non-libri, a tentare di diventare anch'essi non-scrittori. E donnine e ometti incapaci, senza talenti d'un qualche tipo - vestiti in modo che per chiunque di noi sarebbe imbarazzante - che straparlano sui social, per il potere che il popolo osannante regala loro; e attori un tempo geniali che ora si vendono da un palco di festival per dieci minuti di retorica, e un'informazione tanto abile a farti vedere il mondo come vuole lei che finisci per credere sia il migliore possibile. Contro tutte queste disdette cosa posso fare se non scappare? Oppure posso restare, restare e combattere con le povere armi che ho: spuntate, ad avancarica, i fucili coi tappi di sughero, le pistole della Atlantic, il tomawak di gomma. Le mie parole son così. E però ridendo e scherzando, solo in questo cantiere, aperto assieme a loro, ho costruito in undici anni di olio di gomito seicento case popolari. E allora festeggiamo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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