Ares è un mio amico che ha paura dei sogni. O meglio: li ha temuti fino a qualche tempo fa, poi ci è sceso a patti, così mi ha raccontato. Per tutta la vita che l'ho frequentato - eravamo ragazzi, da allora a oggi - ha odiato dormire perché nel sonno lo assalivano sogni furenti, talmente plausibili da farlo rammaricare appena sveglio della vita reale, a cui al contrario non crede. Ares sogna ferocemente, sogna tutte le notti un affastellato contromondo che ha una logica tutta sua, un universo in cui però si trova finalmente a suo agio, in cui i morti che ha seppellito sono vivi e gli girano attorno noncuranti del destino, e il dolore non ha diritto d'asilo e tutto è soave. Ecco, il motivo per cui odiava sognare sta tutto lì: detestava quel tempo migliore e la sua fasullaggine, non ce la faceva a gestire il confronto con quel che è concreto, che rifiutava come un ateo rifiuta dio pur sapendo che esiste. Poi a settembre ha capito di aver preso una cantonata, si è convinto che l'immaginazione è più innocente della realtà e ha trovato il rimedio a tutta la sua dabbenaggine. Ha traslocato nei sogni, non so con precisione come abbia potuto, me lo ha spiegato ma è un procedimento complesso, non ci ho capito niente - algoritmi, calcoli di matematica dell'equilibrio che neanche John Nash - ma sta di fatto che c'è riuscito. Una faccenda come cambiar casa, seccante ma si va a stare meglio, si lascia il posto malato di prima, coi vicini pazzi, molesti, e si comincia una nuova vita. Ha chiamato una ditta di traslochi, sono arrivati con un camion immane e la scala allungabile, e da una finestra gli han tirato via dall'appartamento tutte le cose futili lasciando gli ingombri, che nei sogni non servono. Niente sciarpe, cappotti, televisori, deodoranti, medicine, corn flakes, poltrone Relax, ma solo stagioni antiche, memorie osé, modi di dire geniali, qui pro quo imbarazzanti, ripensamenti, notti in bianco, spaventi immotivati, fogli scritti a lapis, canzoni e allegria. L'allegria, soprattutto, pesava un accidente, l'han dovuta portare giù in due, con la scala non c'è stato verso, sarebbe ruzzolata ovunque. Mi ha salutato, mi ha stretto la mano, me ne ha lasciato un grammo, di quella sostanza che allevia, mi ha detto "Iniettala in vena, quando è il caso", è salito sul camion dei facchini ed è andato via con loro.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post