Suonano il campanello, bussano alla mia porta, bussano con le nocche e coi piedi, picchiano con le mani aperte, lasciano passare un minuto e poi ricominciano. Non lo so se gli stessi o altri ancora, se sono gli stessi mi vogliono far credere d'esser andati via e poi ci riprovano contando di prendermi sottovento. Io sono sempre all'erta, quando succede, perché mica è la prima volta che mi fanno questo scherzo: fingono di andarsene e tornano alla carica. Poco fa, per esempio. Poteva essere chiunque: una masnada di indemoniati, un predicatore, un assassino, un untore, un venditore di denaro. Potevano essere questuanti, allibratori, venditori di bibbie, largitori di crack, donne di malaffare, faccendieri dal cuore irsuto. Io non apro, non apro mai: la mia porta è sbarrata. Un tempo era una semplice porta di legno, ma bella possente, dura, rinforzata da catenacci e fibbie di ferro; poi l'ho fatta smontare e al suo posto ora c'è un portone blindato, con i chiavistelli al tungsteno, un sistema sofisticato d'allarme a infrarossi e uno spioncino nascosto da cui guardare l'invasore senza che lui se ne accorga. Io in realtà non ci guardo mai, dallo spioncino: sono sicuro che dall'altra parte potrebbero trovarlo anche se il costruttore l'ha mimetizzato tra le scanalature, e infilarci un ferro da calza, e così trafiggermi un occhio e arrivarmi al cervello. Sono capaci di tutto, quelli che vogliono entrarti in casa. Io non apro, non guardo, non mi muovo, non respiro, quando suonano alla porta. E poi il mondo là fuori non mi piace, non mi interessa, non c'è nulla di cui ho bisogno e perciò non c'è nulla che mi attrae, di quel che potrebbero portarmi qua dentro. Tutto quel che mi serve ce l'ho già e sono bastevole a me stesso: è una gran fortuna. Solo per curiosità, oggi al centesimo scampanellio, mi son deciso a guardare non visto chi fosse: è la prima volta che succede, che guardo il pianerottolo. C'era una donna, una donna bellissima, di certo menzognera come una volpe. Quando ha capito che non rispondevo ha suonato al mio dirimpettaio, e quello, incauto, ben rasato e ben vestito, ha spalancato la porta e l'ha fatta entrare. Ho sentito poi che parlavano di qualcosa che non ho afferrato, ad alta voce, allegri, ridevano, e quando lei è uscita, in capo a pochi minuti, lui era ancora vivo, sembrava anzi felice. "Allora a domani", gli ha detto lei mentre scendeva le scale, e io mi son sentito sollevato d'averla scampata.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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